Non si può dire che sia solo la lungimiranza di Noam Chomsky a dire che «la crisi del coronavirus potrebbe portare la gente a pensare a che tipo di mondo vogliamo». Anche se sono ancora molti a cercare capri espiatori, per non dover pensare alle proprie responsabilità, appare sempre più chiaro che la pandemia in atto, come altri fenomeni devastanti che non possiamo più ignorare – dalla crisi climatica e ambientale alla povertà crescente, dalle ondate migratorie alla violenza contro le donne – hanno un carattere strutturale, cioè una storia e un radicamento che non risparmia le nostre convinzioni e abitudini.

«Da tempo – scrive Angel Luis Lara in un articolo su Eldiario. Es, tradotto da Pierluigi Sullo – la ragione neoliberista ha convertito ai nostri occhi il capitalismo in uno stato di natura (…). Se la clausura ha congelato la normalità delle nostre inezie e dei nostri automatismi, approfittiamo del tempo sospeso per interrogarci su inerzie e automatismi. Non c’è normalità alla quale tornare quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto a quel che oggi abbiamo. Il problema che affrontiamo non è solo il capitalismo, ma anche il capitalismo in me». Il coronavirus, in altre parole, parla di noi, di quello che siamo e di quello che potremmo essere, della società nella quale ci troviamo a vivere, e di cui stanno arrivando all’evidenza aspetti che non volevamo vedere. Qualcuno ha detto che la natura si vendica delle troppe ferite che le abbiamo inferto.

Forse sarebbe più corretto dire che sono le nostre stesse devastanti aggressioni alle altre specie, animali e vegetali, che oggi si ritorcono contro di noi per una sorta di legge del contrappasso. Prima ancora che scoppiasse la pandemia del Covid-19, si sapeva quanto avessero contato nella diffusione di influenze virali lo sfruttamento intensivo dell’allevamento e la deforestazione. Non c’è bisogno di ricorrere alla metafora della guerra, e nemmeno alla lotta tra Eros e Thanatos, per capire che siamo di fronte a una di quelle svolte che inducono una civiltà esaurita a rivedere il rapporto ottimistico con le sue mete tecnico-scientifiche, a riconoscere la finitezza e l’incompiutezza delle alternative concesse alla specie umana.  Se è vero che il capitalismo, come del resto in precedenza il sessismo, il razzismo, lo specismo e altre forme di dominio, sono entrati nella nostra visione del mondo come fenomeni “naturali”, radicati nelle formazioni inconsce come nella memoria del corpo, da dove può cominciare il cambiamento se non dall’esperienza?

Sono le vite messe a nudo, così come quella che abbiamo considerata la “normalità” dello sfruttamento del lavoro, della violenza maschile, delle catastrofi ambientali, che possono farci riflettere e insegnarci a trovare nuove strade.
Anni fa, uscita da una lunga terapia intensiva, riuscii a consegnare a un breve frammento il pensiero che nonostante tutto mi aveva accompagnato in quel passaggio stretto tra la vita e la morte. «Ci sono alfabeti ancora da scoprire – scrivevo – conficcati negli interstizi della carne, nel rantolo di bocche chiuse, nel sussulto di arti sedati. L’uomo procede eretto ma ha i piedi nella sua mai tramontata preistoria». Non c’è da meravigliarsi che siano i corpi, per la storia che vi è passata sopra, oltre che per i loro limiti naturali, le loro fragilità, a disegnare una geografia che non prevede confini, a far emergere un’idea di comunità più umana e solidale che, per quanto utopica, si dà oggi come reale e possibile.

Reale, al di là delle tante differenze, è il fatto di doverci riconoscere uguali di fronte a un pericolo che viaggia invisibile per il pianeta e che paradossalmente si trasmette attraverso i gesti, le relazioni più intime, più usuali, come una stretta di mano e un abbraccio. Reale è dover dare alla cura l’estensione che non siamo riusciti finora a vedere necessaria: non il destino di un sesso o il compito privato della famiglia tradizionale, che ormai sta scomparendo, ma la responsabilità collettiva di uomini e donne; non solo cura dei figli, malati, anziani, ma difesa dei beni comuni, come la salute, la scuola, la giustizia sociale, il benessere di tutti, l’attenzione alla natura e alle altre specie.

«Questo è il rovescio radicale – scriveva Elvio Fachinelli – dell’antica e ben nota posizione in cui la natura, madre divina, era chiamata a salvarci. Ora siamo noi sollecitati a salvarla. Forse non di un lutto abbiamo bisogno, ma di questo accoglimento, di questa capacità di immedesimazione in cui noi, feriti, diventeremo madri di creature ferite».
Scritto nello stesso anno della sua morte, l’avvertimento di Fachinelli suona oggi drammaticamente attuale, induce a sperare che il tipo di mondo da portare in salvo sia quello già prefigurato nel pensiero e nell’azione dei movimenti ambientalisti, antirazzisti, femministi, trans femministi e antispecisti, anticapitalisti. E oggi reso necessario dall’irruzione di quello che Naomi Klein ha definito «il disastro perfetto per il capitalismo dei disastri».