Giampaolo Sodano, 82 compiuti giovedì e ancora il pieno di energie, è furibondo. Ha dedicato la vita alla Rai, non si capacita di quel che accade adesso a quell’azienda, una volta pioneristica e virtuosa. Entrato giovanissimo, nel 1966, con un concorso pubblico scala tutte le posizioni interne. Nel 1987 è vice-presidente e amministratore delegato di Sipra e successivamente direttore di Rai Due. Rimarrà in carica dal 1989 al 1993, per dirigere dal 1994 le produzioni, coproduzioni e l’acquisto dei prodotti di tutti i generi, dalla fiction allo sport.

Report ha preannunciato di mettere in onda, domenica sera, un servizio sulla ‘campagna elettorale di Giovanni Toti’ in Liguria proprio mentre in quella regione le urne saranno aperte. Si voterà fino a lunedì pomeriggio.
«La considero una cosa assurda, contro la norma che da decenni prevede che finita la campagna elettorale, ci sia il silenzio. Non può essere svolto alcun intervento pubblico capace di indirizzare l’opinione degli elettori, durante quella pausa di riflessione pensata così dal legislatore. Per far decantare le idee senza sollecitazioni. Poi figuriamoci se si interviene sulla vicenda Toti, inserendosi in una vertenza politica molto delicata e complessa, trattata da inchieste giudiziarie».

Bizarro che sia la Rai, il servizio pubblico, a interferire con il silenzio elettorale…
«Più che bizzarro, mi scusi, che il servizio pubblico trovi come idea quella di mandare in onda non una notizia, che avrebbe carattere di urgenza, bensì una inchiesta. E non su un elemento estraneo alla campagna, ma su uno dei personaggi di maggiore riferimento della campagna in corso, nata a causa del suo arresto. Una cosa fuori dal mondo, da qualsiasi norma. Farebbe bene il Direttore generale a intervenire e a sospendere la messa in onda di questo servizio, che può tranquillamente andare in onda la settimana successiva. Senza nessuna censura. Le inchieste non sono legate all’attualità stringente, rimangono valide a più settimane di distanza. Se sono inchieste».

Ranucci sostiene che i giornalisti non devono rispettare il silenzio elettorale.
«Ma non è vero. Tutta la propaganda è vietata, se un servizio televisivo se la prende con uno degli attori in campo, semplicemente non si può fare. E poi c’è un problema di responsabilità etica, di professionalità e di deontologia. Un giornalista che fa un’inchiesta, prima di mandarla in onda, si domanda: “È opportuno che mandi in onda oggi, a urne aperte, il mio servizio?”. Un giornalista serio e responsabile non lo farebbe. Sigfrido Ranucci però sembra pensare – più che al suo dovere di giornalista – a tenere quel suo atteggiamento da star televisiva. Si facesse pubblicità in altro modo».

Se ci fosse ancora lei lì, al suo posto di direttore di rete?
«Non potrebbe mai andare in onda in questo modo, in quel giorno. Questo è sicuro. Gli avrei dato la prima data utile per farlo uscire correttamente, rispettando non solo le regole ma mettendo l’etica e la professionalità avanti a tutto. Questa era la mia Rai».

E perché oggi non succede?
«Al gruppo dirigente della televisione pubblica di oggi andrebbero chieste molte cose. Perché Ranucci fa come gli pare? Perché manca l’autorevolezza di una direzione aziendale in grado di dire dei sì e dei no. Ed è anche la causa del declino incredibile dell’azienda, in mano ad incompetenti».

D’altronde anche sul piano degli ascolti, qualche flop di troppo…
«Qualche flop?! Hanno fatto scelte disgraziate come quelle di cancellare le reti, che garantivano il vero pluralismo culturale, grazie a una legge del 1975. Risultato? Il patrimonio di prodotto straordinario delle reti – parlo di Rai Due, quella che conosco meglio – è devastato. Rai Due fa prodotti con lo 0,9, l’1,8 di share. Ma stiamo scherzando? Fanno ciarpame che il pubblico rifiuta».

Si dirà che il mondo è cambiato con le piattaforme, con Netflix…
«Netflix doveva farlo la Rai. Avevamo inventato fiction incredibili e se si fosse messo mano al magazzino dei prodotti, valorizzandolo, la grande piattaforma della tv on demand poteva nascere a viale Mazzini, dieci anni fa. Oggi c’è una povertà di idee impressionante».

C’è un problema di dirigenti, come sull’omesso controllo su Ranucci?
«Ma che razza di roba fanno, sull’informazione, in Rai? Il signor Corsini, che si occupa di questo, dove avrebbe imparato il mestiere di direttore? Io e Giovanni Minoli inventammo una rete che puntando sull’informazione di qualità faceva in media il 18%, raddoppiando ogni annoi il fatturato pubblicitario. Abbiamo prodotto successi, incassi, risultati. Questi di oggi improvvisano. E così intanto crescono La7, Netflix, Warner Media…».

Adesso la Rai si prepara per gli Stati generali, preso atto della norma europea sull’indipendenza dei media…
«E io porrei qualche questione di fondo. Nel 2027, tra due anni, scade la convenzione tra lo Stato e la Rai sull’affidamento del servizio pubblico. Quando lo Stato affidò alla Rai il servizio pubblico, a metà anni Cinquanta, esisteva solo la Rai, che prima era l’Eiar. La classe dirigente del tempo affidò alla compagnia radiofonica pubblica l’incarico. Ma oggi è cambiato il mondo. Ci sono centinaia di aziende televisive. Esiste una normativa, una legislazione sul servizio pubblico radiotelevisivo? Non è mai stata scritta. La prima cosa che Parlamento e Governo dovrebbero fare è perimetrare il servizio pubblico, fissare una legge-quadro sulla tv. E poi bisogna capire se lo Stato deve dare alla Rai questo servizio pubblico: per quale privilegio? Per la sua storia? Per consuetudine? Perché c’è il ministero del Tesoro? Ma la Rai così com’è oggi, chiedo, è l’unico destinatario possibile per l’assolvimento del servizio pubblico?».

Una legge c’è, ed è quella sul canone Rai. Stabilisce che lo si debba pagare tutti.
«Anche qui propongo una riflessione. Hanno maneggiato il canone, a seconda del periodo storico, in modo diverso. Ma perché lo paghiamo alla Rai? Nel 1954, lo capisco. Oggi, con l’offerta che c’è, ciascuno di noi si può fare il suo palinsesto. Milioni di spettatori appassionati di televisione non guardano la Rai da anni. E allora io non penso che possa esistere ancora un canone per l’azienda Rai. Già oggi è previsto che una quota vada ad aziende televisive minori».

Qual è la sua idea?
«La crisi delle strutture culturali è enorme. Penso alle case editrici, agli editori dei giornali, ai teatri, ai cinema, all’opera, al balletto. Eliminiamo tutte le prebende e facciamo una bella cosa, paghiamo tutti il canone per finanziare la diffusione vera della cultura italiana, a tutto tondo. Con una grande funzione civile che veda una distribuzione di risorse che va dalla cultura in tv alla cultura nelle piazze, nelle sale, nelle edicole. Farebbe bene soprattutto alla qualità della televisione, che di questi tempi, visto che parlavamo di qualcuno che lavora per aggirare il silenzio elettorale, è messa davvero molto male».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.