La vita in cella nella lettera a Sbarre di Zucchero
“Non ero mai stata in carcere, lì ho visto tristezza e abbandono: le persone vanno aiutate non demolite”
V. ha conosciuto per la prima volta il carcere a 32 anni. Prima ne aveva solo sentito parlare. Ha deciso di raccontarsi in una lettera al gruppo Sbarre di Zucchero che riportiamo di seguito. Non è stato semplice per lei entrare in quel mondo che non le apparteneva. Lì ha conosciuto donne che le hanno dato la forza, anche solo con un sorriso o offrendole da mangiare, per andare avanti. E lì ha conosciuto anche la tristezza e l’abbandono di altre che erano come “zombie”, che restavano chiuse in cella a dormire 22 ore su 24 perchè distrutte dalla droga. “Ma che ci fa qui? – pensò V. guardando una di queste magra come un chiodo – Dovrebbe essere in una comunità. Come poteva aiutare delle persone così com’è la galera?”.
Mi chiamo V. e ho 32 anni, nel settembre del 2017 vengo arrestata insieme a mio marito per concorso in detenzione di sostanze stupefacenti. Premetto una cosa, mi sono sempre ritenuta non colpevole, la mia colpa è stata essere mamma di 2 bambini e non avere un lavoro, perciò vivendo con i soldi che portava a casa mio marito, per PM e GIP ero colpevole.
Tralasciando la schifo di processo da incensurata (trattata come la peggio criminale), torno al giorno dell’arresto, succede verso le 19 di sera, perciò passiamo l’intera serata e la notte seduti su una sedia della caserma di Milano, arrivo al carcere verso le 7 del mattino.
Non avevo mai visto un carcere in vita mia, arrivata già al cancello d’ingresso inizia la tachicardia. Ero spaventata a morte… arrivo alla matricola mi fanno entrare in una specie di sgabuzzino, l’agente donna mi dice di levarmi completamente tutto, mi taglia il reggiseno per togliere il ferretto.. per il resto non avevo nulla con me… solo le sigarette. Mi fanno salire in infermeria, dove rimango fino alle 14.. dove nel frattempo tantissime ragazze mentre salivano e scendevano dalle sezioni si fermavano a osservarmi e a chiedermi “sei appena arrivata?” Piacere io sono… “hai fame?” “Hai mangiato?” Vuoi qualcosa da bere?”. L’accoglienza di tutte quelle ragazze mi ha fatta sentire meglio.. non avevo mai immaginato come fosse il carcere o come fossero le persone detenute.. ora io ero una di loro.
Arriva la visita medica, 4 domande in croce e mi portano in sezione, mi assegnano la cella, appena entro trovo una signora sulla cinquantina, slava (se non ricordo male) non spiccicava una parola in italiano, arrivano altre ragazze ad accogliermi, mi chiedono se ho fame, se voglio mangiare qualcosa (il carrello era passato ore prima) accetto. I primi giorni avevo un pensiero fisso nella testa “ma che ci faccio qui?” io dovrei essere a casa con i miei bambini… poi è arrivata una sorta di rassegnazione, o meglio, una sorta di accettazione ed osservazione. Cominciai ad assimilare la routine della galera, e notai anche una differenza tra le sezioni al femminile sono solo 3 (penale, primo piano e il secondo). Io ero in quello “punitivo” anche se in teoria non doveva esistere. Diciamo che era soprannominato così, a noi alla chiusura ritiravano i fornellini e ce li restituivano alla mattina all’apertura, la socialità la facevamo chiuse nelle celle, non avevano un frigorifero dove conservare il cibo, insomma queste regole le avevamo solo noi, anche se eravamo una sezione comune come quella del secondo piano.
Già da questo sentivo una sorta di ingiustizia, addirittura le ragazze mi avevano raccontato che l’ispettrice per “punizione” le aveva tenute chiuse per quasi 2 mesi. Inutile dire quante amicizie ho conservato con tanto amore in quel posto, alcune le sento per telefono perché uscite, altre invece continuo a sentirle per lettere… Ma ciò che non scorderò mai di quel posto, è la tristezza e l’abbandono di alcune di loro… le chiamavano “le zombie”… 2 celle di 6 ragazze, alcune di loro giovanissime, non uscivano mai dalla cella… era sempre buia, dormivano praticamente sempre imbottite di terapia e metadone. Un giorno festeggiammo il compleanno di una compagna e cogliemmo l’occasione di farle uscire da quel tugurio. Alcune di loro vennero e così riuscimmo a parlarci…A. aveva 20 anni, era una tossicodipendente, i genitori l’avevano cacciata di casa e lei viveva nel bosco di Rogoredo e per drogarsi andava a rubare qua e là.. nella mia testa pensavo “ma che ci fa qui?”. Dovrebbe essere in una comunità! Era magra come un chiodo e dormiva 22 ore su 24, come poteva aiutare delle persone così com’è la galera? Come lei, tante altre sopperivano per la loro condizione di vita sociale e per la loro salute.
A me ad esempio cos’ha insegnato la galera? Io che non ho problemi di tossicodipendenza, non ho mai commesso reati, se non avere un marito con precedenti penali? Ho imparato che la Giustizia è la prima ad essere responsabile, le persone vanno aiutate non demolite, le persone non vanno punite, ma responsabilizzare, le persone devono poter entrare in carcere ed uscirne reinserite, non categorizzate, non marchiate a vita da una precedente penale. Il carcere deve riabilitare e adesso l’unica funzione che ha è DEMOLIRE, ANNIENTARE, PUNIRE E UCCIDERE.
Mando un abbraccio a tutte le donne di Sbarre di Zucchero e a tutte le donne detenute.
“IL MONDO DOVREBBE ESSERE COSIì CHI HA BISOGNO VA AIUTATO”
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