La riflessione sulla pandemia
Non la penso come Salvini, ma non si crepa di solo Covid
«Io dico solennemente che trovo iniquo che una società vada in malora per far campare qualche anno in più uno come me e quelli della mia generazione». Questa frase (preceduta dalla conferma di essere per età un soggetto anagraficamente a rischio, di essere stato disciplinato nel corso della pandemia, di aver seguito tutte le prescrizioni e di essere in attesa della seconda dose del vaccino) pronunciata davanti ad un panel di ospiti allibiti a Di Martedì, è rimbalzata sui social dove sono stato ricoperto di insulti e di ogni tipo di malaugurio. La cosa, in verità, mi ha colto di sorpresa perché concetti analoghi, magari con più tempo a disposizione, li ho espressi decine di volte per iscritto (posso fornire le prove) e anche sugli schermi televisivi dove hanno la cortesia di invitarmi.
Ho apprezzato allora un articolo di Peter Gomez sul Fatto quotidiano perché – nonostante critichi la mia opinione – evita le offese gratuite e cerca di misurarsi con i miei argomenti, dandomi modo così di ritornare sul tema e di spiegarmi più diffusamente. Dico subito (anche di questo ho le prove) che non ho nulla da spartire con Matteo Salvini e compagnia cantante e che è assolutamente arbitrario attribuirmi di appartenere ad una ideologia economicista che se ne fotte della vita. Tanto più di evocare la mia propensione per i forni crematori. Ho avuto l’opportunità, da ragazzo, di partecipare ad una visita organizzata dall’Associazione dei deportati politici, ai campi di sterminio nazisti: una esperienza fondamentale della mia ormai lunga vita.
Mi verrebbe da dire che durante la pandemia i forni crematori sono stati usati dalle autorità civili e sanitarie (ricordiamo tutti la fila di automezzi militari a Bergamo), ma me lo risparmio per non condividere la malafede di chi attribuisce a me questa attitudine. Nei dibattiti continua a dominare una sorta di “pensiero unico” attraverso il conformismo dei media. Il problema dei contagi, degli infetti e dei decessi viene affrontato come se il covid fosse l’unica patologia di cui preoccuparsi, senza distinguere tra i casi di diversa intensità della malattia e senza fornire una rappresentazione della letalità in termini rapportati ad altre patologie. Siamo rimasti inchiodati all’equazione della prima fase: contagio = morte. Ricordo un’osservazione di Luciano Capone che a mio avviso sollevava una questione cruciale di carattere etico-politico.
Scriveva su Il Foglio: «l’età mediana dei deceduti (da covid-19, ndr) è più alta di 30 anni rispetto a quella dei positivi. La letalità – proseguiva – diminuisce nettamente al diminuire dell’età: i deceduti con meno di 50 anni sono l’1% del totale, quota che scende allo 0,2% sotto i 40 anni (…). Ciò su cui c’è però molta meno consapevolezza, e di cui si discute poco, è che le misure di contrasto al Covid colpiscono più duramente i giovani». Nella Costituzione non è prevista una gerarchia di diritti; non esiste un diritto “più uguale” degli altri. Il diritto alla salute è sancito dall’articolo 32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»), ma questo – ancorché fondamentale – non può essere un diritto “tiranno”. È stata proprio Marta Cartabia quando era ancora presidente della Consulta a ricordare i principi della giurisprudenza costituzionale in materia di diritti fondamentali.
«La Corte ha affermato che il diritto assoluto diventa un tiranno» – sono sue parole – e che pertanto occorre «tenere unito ciò che apparentemente non poteva trovare un contemperamento, la tutela della salute, dell’ambiente, ma anche il diritto al lavoro e i diritti economici dell’impresa. Istanze tutte buone ma che, se affermate in modo assoluto, rompono il tessuto sociale, e la necessità di bilanciare». La presidente si riferiva alla necessità di un equilibrio tra diritti ugualmente fondamentali: «il bilanciamento deve essere condotto senza consentire l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona».
Il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati’’. Come si fa a non vedere che le misure di contenimento dell’epidemia del Covid-19 hanno trasformato il diritto alla salute in un diritto “tiranno”, in nome del quale sono state sospese – con maggiore o minore intensità – tutte le altre prerogative che la Legge fondamentale riconosce ai cittadini? In una variabile “indipendente” che condizionava indiscussa le altre?
Tutto questo in nome di un diritto alla salute anch’esso mutilato, perché, di fatto, non si eseguono le terapie né gli interventi chirurgici necessari per altre tipologie (altrettanto gravi), soprattutto per quanto riguarda la cura dei neonati e dell’infanzia (come hanno ricordato i pediatri). Nel 2020 i decessi sono stati 745mila il numero più alto dal secondo dopoguerra. Ma il debito pubblico – al 160% – è risalito alla fine della Grande Guerra. Secondo il Foce (l’associazione che raccoglie i medici cardiologici, oncologi e ematologi) nel 2020 sia verificata una mortalità in eccesso del 21% valutabile in 108.178 decessi in più, dei quali circa il 69% sono dovuti principalmente al Covid e di questi una buona parte hanno colpito pazienti affetti da patologie cardiologiche od oncoematologiche, che sono a maggior rischio di letalità in caso di contagio. Il restante 31% è costituito da morti per patologie “non Covid”, soprattutto tempo-dipendenti (ovvero di pazienti la cui salvezza è legata alla rapidità dell’intervento, come le patologie cardiologiche), di ammalati che non hanno trovato un’assistenza adeguata e tempestiva in occasione di eventi acuti.
Ma quel che è inaccettabile, almeno per chi scrive, è la supina assuefazione dell’opinione pubblica a regole bizzarre, confuse, contraddittorie attraverso le quali si è sconvolta la vita delle famiglie, delle persone e devastata l’economia di importanti settori produttivi. Non abbiamo dato prova di “senso civico” ma di psicosi epidemica. A me hanno insegnato che, in politica, gli errori si fanno quando si sbaglia analisi. Abbiamo creduto che dopo tre mesi di lockdown duro tutto sarebbe andato bene. Poi quando è arrivata la seconda ondata si è ritenuto che con la vaccinazione tutto sarebbe stato risolto, senza tener conto delle difficoltà di una operazione di questa portata e soprattutto sottovalutando la questione (assolutamente prevedibile) della varianti.
Ora sappiamo che il virus “abiterà qui” ancora per anni e che saranno necessari nuovi vaccini e nuove terapie. Per quanto ancora possiamo andare avanti così? Con importanti settori dell’economia strangolati senza un perché? Quando ogni giorno ci sono milioni di persone che salgono sui mezzi pubblici, si presentano sul posto di lavoro in relativa sicurezza grazie ai protocolli concordati tra le parti sociali. Non è impossibile – è dimostrato – produrre e lavorare riducendo il rischio del contagio con tutti gli accorgimenti necessari. E non è impossibile tutelare in modo particolare i soggetti fragili senza fare il vuoto intorno a loro.
È vero, il nemico è il virus. Ma non tutti i modi per combatterlo sono accettabili; e possono essere criticati legittimamente. Vogliamo scommettere? I ristoranti possono restare aperti fino alle 22 purché all’aria fresca. Vedrete che tra un po’ se la prenderanno con gli apericena che saranno resi possibili dagli orari presunti virtuosi. Domani è il 25 aprile. L’anno scorso Mattia Feltri scrisse: «settantacinque anni fa c’era chi rischiava la vita per la libertà, oggi c’è chi rischia la libertà per la vita».
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