I 63 morti di Cutro, fratelli e sorelle sfiniti dalla sofferenza della fuga da una patria martoriata, hanno tentato fino all’ultima bracciata, fino all’ultimo respiro, di sfiorare con le dita la speranza che fin qui avevano inseguito: toccare terra in un luogo capace di salvarli e di accoglierli. Non hanno riconosciuto, i nostri fratelli pakistani, afghani, iraniani, siriani, nell’orizzonte freddo della costa, avara di aiuti e incapace di cura per l’unicità preziosa delle loro vite, non hanno riconosciuto questa diversità della nostra terra rispetto a quella che li ha scacciati, perseguitati, minacciati, costretti all’esilio.

Ci avrebbero chiesto, se fossero riusciti ad approdare, su cosa fondiamo oggi noi europei, noi occidentali, la promessa che abbiamo fatto quando abbiamo scritto la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Ci avrebbero chiesto se abbiamo compreso che quella promessa l’abbiamo fatta innanzitutto a coloro che ancor oggi scappano dai luoghi in cui questi diritti sono sconosciuti, violati, e se ci siamo resi conto che lasciandoli morire li abbiamo violati noi stessi, per primi. Non è solo dinanzi a quello che è accaduto in Calabria che ci sentiamo di dover fare questa affermazione, ma anche e soprattutto dinanzi alla negazione delle responsabilità, alla mancanza di consapevolezza politica ed umana da parte delle istituzioni nazionali ed internazionali impegnate solo a stringere accordi con paesi come la Libia per trattenere e sospingere i migranti in veri e propri campi di concentramento.

Il culmine simbolico è stata la dichiarazione resa dal ministro Piantedosi, un uomo delle istituzioni che ha prestato il proprio giuramento sulla Costituzione italiana, il quale ha ribaltato la colpa sulle vittime. Crediamo invece che sia necessario rispondere ai tanti interrogativi ancora aperti sul naufragio di Cutro e che venga dissipato ogni equivoco sulla gravissima responsabilità di chi non soccorre i naufraghi lasciandoli morire in mare. Si aprano una volta per tutte i tanto attesi corridoi umanitari, si agisca sul diritto di asilo, si lavori sull’integrazione. Facciamo insieme di questa nostra terra un giardino fecondo di vita, in cui celebrare e sperimentare la convivialità delle differenze.

*Arcivescovo di Palermo