Oggi è sorto il sole di Austerlitz nelle votazioni finali sulla legge Cartabia alla Camera. La riforma della giustizia (che per ora riguarda soltanto la revisione di alcuni aspetti del processo penale) ha rappresentato uno spartiacque per il governo e lo stesso Mario Draghi.

L’iter del disegno di legge, che ora deve affrontare l’Aula del Senato, era iniziato da una riunione del Consiglio dei Ministri in cui il premier aveva appoggiato sul tavolo la spada di Brenno chiedendo ed ottenendo un’approvazione unanime. Salvo poi accorgersi che la sua compagine non somiglia affatto al board della Bce nelle cui sessioni vi è la certezza che quando un membro del direttorio interviene, lo fa a nome del suo governo. Marta Cartabia è stato oggetto di attacchi vergognosi sui media di fede manettara, ha dovuto sopportare gli autodafé di alti magistrati inquirenti; ma soprattutto ha dovuto mediare con il M5S senza peraltro trovare un interlocutore affidabile in un movimento che è ormai un esercito – lo si vede nel voto di fiducia – allo sbando costretto “a risalire in disordine e senza speranza le valli che aveva discese con orgogliosa sicurezza”.

Se tutti si sentono in diritto di cantare vittoria per l’ultima mediazione intervenuta a Palazzo Chigi, camminando per ore sull’orlo della crisi, ciò significa che la soluzione trovata – per quanto importante – è complessa, ingarbugliata; una soluzione che ha dovuto tener conto di nostalgie propagandistiche dei pentastellati che ben poco avevano a che fare con questioni di merito. Su Il Foglio, Gaetano Pecorella ha ricordato che già adesso i reati di mafia e di terrorismo, ad esempio, sono praticamente imprescrittibili, poiché è sufficiente un solo atto interruttivo della prescrizione per arrivare a 36 anni ed oltre, mentre il problema riguardava piuttosto i limiti della carcerazione preventiva. Va osservato che, nelle fattispecie di reato per le quali è stata ampliata l’improcedibilità (sia pure con un passaggio in Cassazione per la valutazione dei motivi), si rischia di creare un regime speciale di presunzione di colpevolezza, come se occorresse tutto il tempo necessario a provare la sussistenza di quei reati (in gran parte estrapolati dalla giurisprudenza nel silenzio della legge) prima che l’imputato la faccia franca (copyright Davigo).

È vero, comunque, che la riforma Cartabia inverte il cammino inverecondo intrapreso dal governo giallo-verde. Ma non possiamo nasconderci lo slalom normativo che il ministro ha dovuto compiere per arrivare in porto. Ovviamente non è il caso di “turarsi il naso”, ma di comprendere quanto sarà duro il cammino del governo. E non solo per i caravanserraglio della maggioranza, ma per la difficoltà politica e tecnica di mettere riparo a guasti legislativi perpetranti all’inizio della legislatura dal Conte 1. A proposito, la Lega sembra essere il partito degli smemorati (non a caso Collegno è al Nord). È singolare l’entusiasmo antigiustizialista di Matteo Salvini nel sostenere il referendum insieme ai professionisti referendari del Partito radicale, come se la Lega non avesse nulla da spartire con la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e con l’abominio della legge spazzacorrotti.

La vicenda della riforma della giustizia rappresenta però un segnale d’allarme per altri importanti punti che verranno all’ordine del giorno. A partire dalla questione del green pass, da estendere ai posti di lavoro, che è un tentativo di risposta ad un fenomeno molto serio. In Europa vi sono milioni di renitenti alla vaccinazione. I confini dei nuovi “gilet gialli” non sono più quelli del tradizionale e strutturato movimento dei No Vax, portatori di una vera e propria ideologia e protagonisti di iniziative militanti. Gli apostati del vaccino costituiscono una diaspora confusa, di varie umanità. Ma è difficile togliersi il dubbio che quei sentimenti negativi, irrazionali, nichilisti che sono stati banditi dalla politica abbiano trovato un altro momento di coagulo.

Poi busserà alle porte della legge di bilancio il tormentone delle pensioni. Anche in questa materia il governo Conte 1 si è brucato i vascelli alle spalle, deviando su di una strada senza uscita il percorso lineare della riforma Fornero. Il governo Conte 2 – grazie al Ministro Nunzia Catalfo – ha aperto sconfinate praterie alle proposte dei sindacati assecondandoli nella loro noncuranza per la finanza pubblica, gli squilibri demografici, le iniquità nei confronti delle future generazioni, concordando con loro sull’esigenza di un superamento definitivo della riforma del 2011. Così mentre Cgil, Cisl e Uil sbandieravano al vento una piattaforma senza arte né parte, fuori dal mercato e dalla storia, il governo Draghi da febbraio ad oggi non ha mai pronunciato una sola volta la parola pensioni, fino all’incontro del 27 luglio con i dirigenti sindacali a cui – se l’hanno capito – il ministro Andrea Orlando ha raccontato loro che “non c’è trippa per gatti”; che si rientra, seppure un po’ ammaccati, nel percorso tracciato nel 2011, magari con qualche sconto per i lavori disagiati.

Se fino ad ora il governo ha avuto più problemi – ora con il M5S, ora con Matteo Salvini – sulle pensioni avrà certamente dei guai con i sindacati i quali cercheranno di giocare su tutti i tavoli: su quello del Pd (novello asino di Buridano) alla ricerca di un’anima di sinistra, e su quello dei partiti colpevoli di quota 100 e dintorni. Perché, come insegna la letteratura gialla, i colpevoli ritornano sempre sul luogo del delitto.