Green pass e il rispetto dei diritti costituzionali
Non sottovalutiamo la rivolta dei professori universitari sul green pass
Il documento sottoscritto, a oggi, da 500 docenti universitari per l’abolizione del green pass è una pietra d’inciampo nella discussione politica e sociale che sta tagliando in due il paese in queste settimane. Lo è per la semplice ragione non si può certo immaginare di archiviare la presa di posizione di una parte non marginale dell’accademia italiana additandola come la manifestazione, tra il naif e lo snob, di una certa intellighenzia nostrana.
Quella, per intenderci, che ben conosciamo e che mal sopportiamo perché sempre pronta all’anticonformismo ideologico di facciata e sotto sotto sempre impegnata a difendere un opaco nepotismo carrieristico. Qualcuno ha richiamato i più in vista tra i professori “ribelli” al principio di realtà. Sarebbe la realtà feroce della pandemia che impone il green pass per accedere alle università come il male minore, come il rimedio inevitabile che resiste a ogni obiezione ideologica. L’argomento dello stato di necessità lo abbiamo sprecato nell’ultimo anno a proposito dei lockdown, estesi o circoscritti, dei vaccini, delle restrizioni di vario genere; i fatti, come noto, sono argomenti particolarmente testardi e i fatti esigono mutilazioni della libertà a geometria variabile, si dice. L’ultima frontiera, prima dell’obbligo vaccinale, è quella del green pass. Altre volte, su queste pagine, abbiamo espresso perplessità verso una misura che, nella sostanza e nella forma, delimita e circoscrive due classi di cittadini: quella di coloro che godono pienamente delle libertà loro concesse e quella di quanti, sforniti del viatico verde, ne sono privati e per una parte non trascurabile a dire il vero.
Il documento dei professori è una protesta che proviene da persone che si dichiarano in gran parte vaccinate e che condividono pienamente le politiche sanitarie al riguardo; quel che non riescono a mandare giù è che, con l’escamotage del green pass, «si estenda, di fatto, l’obbligo di vaccinazione in forma surrettizia per accedere anche ai diritti fondamentali allo studio e al lavoro, senza che vi sia la piena assunzione di responsabilità da parte del decisore politico». Non si tratta di un’obiezione di poco conto, come sappiamo. Occorre convincersi che nessun principio di realtà si può spingere sino al punto di dover transigere sulla legalità costituzionale e può consentire che singoli soggetti, privati o pubblici, datori di lavoro o rettori, dirigenti scolastici o primari o quant’altro si pongano alla testa di un’operazione di controllo e di classificazione dei cittadini per giunta con l’ausilio di strumenti massivi di raccolta di dati personali. Il tutto a causa della latitanza del legislatore che non avendo la forza parlamentare per portare a soluzione il dilemma sull’obbligo vaccinale, aggira l’ostacolo con un codice QR da esibire a richiesta delle autorità pubbliche o private.
Non si tratta di essere apocalittici o iperbolici, ma la storia di alcuni paesi, il vissuto di alcune nazioni, la tragedia di alcuni popoli impone cautela, attenzione, circospezione. In un bellissimo saggio Adriano Prosperi (Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, 2021) punta l’indice sulla vocazione del paese a mettere da parte il passato storico: «quella che oggi soffre di un addensarsi dell’oblio è la memoria della comunità o, come la si definisce, la memoria collettiva» e, in essa, la memoria delle leggi razziali, del contributo fattivo e operoso allo sterminio dato dall’Italia, dalla Francia e da tanti altri paesi europei.
Ci sono popoli, nazioni, genti che hanno perso per sempre la propria innocenza e che sono chiamati dalla Storia a un supplemento di attenzione e di vigilanza, al coraggio di un esempio che può anche andar contro il principio di realtà e le convenienze per testimoniare la propria redenzione politica e sociale da un passato intramontabile. D’altronde, scrive Prosperi, «è evidente che non si può guardare ad Auschwitz senza pensare a come l’Europa abbia inabissato lì tutta la sua cultura e la sua grande storia senza più trovare la via per risalire dall’abisso». A suo modo, nella sua effimera e più modesta esistenza, anche la storia del green pass è destinata a lasciare un segno nella memoria collettiva del paese e non può essere quello della discriminazione.
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