Non spetta ai Pm informare l’opinione pubblica, l’imputato non può essere presentato come colpevole prima del processo

Il dibattito sulla Giustizia in Italia è contrappuntato da alcune questioni, che si trascinano da decenni in vesti apparentemente diverse ma dalla sostanza identica. Siccome la politica italiana non affronta i veri nodi, ogni volta si riparte da zero magari affidando ai giuristi, la cui capacità di sublimare il nulla è notoriamente prodigiosa, il compito di risolvere le questioni all’interno di pensose commissioni ministeriali che partoriscono soluzioni che la politica si incarica poi di banalizzare – quando le traduce in legge – e la giurisprudenza di vanificare attraverso l’interpretazione. Una sorta di gioco dell’oca in cui si riparte sempre dallo stesso punto.

Il problema è che molte delle questioni, si pensi alla prescrizione, all’ergastolo ostativo, alla riforma del processo, vengono affrontate in nome di una visione del sistema penale fondata su una vera e propria distorsione. Il processo viene visto come uno strumento di difesa sociale e per tale motivo si carica di una serie di aspettative che finiscono per snaturarne le funzioni. Secondo la nostra Costituzione le persone si processano per stabilire se, rispetto a un determinato fatto, esse meritano le massime sanzioni che, in uno stato di diritto, possono essere applicate: perdita della libertà personale o dei propri beni. In altre parole, benché questo sia da molti decenni assolutamente negato dalla cultura diffusa, tanto da suonare oggi come una bestemmia sociale, i processi non servono a combattere fenomeni criminali se non in via indiretta. Per dirla alla maniera complicata dei giuristi, la prevenzione generale, cioè la carica deterrente che deriva dalla affermazione di responsabilità penale, non è questione del processo.

Francesco Carrara, che aveva il dono della semplicità, spiegava che il codice di procedura penale è la legge per i galantuomini. Va sottolineato che, nelle aule delle università, e in quelle dei convegni giuridici, difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a sostenere il contrario. Viceversa, e l’esempio di Pier Camillo Davigo è illuminante in questo senso, eserciti di magistrati hanno predicato, se non a parole certamente nei fatti, l’esatto contrario. Si prenda la vicenda della custodia cautelare. A leggere le norme di riferimento – e i verbali delle commissioni ministeriali all’esito dei cui lavori quelle norme hanno guadagnato un surplus strabiliante di avverbi – essa dovrebbe essere uno strumento eccezionale, extrema ratio recita il breviario giuridichese. Soprattutto non dovrebbe mai essere applicata come una “anticipazione della pena” prima della sentenza di condanna, ciò in ossequio alla presunzione di non colpevolezza. Solo che se si consultano gli annali della giurisprudenza ci si accorge che il concetto è stato rimosso persino attraverso il ricorso all’inquisitorio concetto di abiura: se non confessi non recidi i tuoi legami criminali, pertanto sei pericoloso e dunque rimani in carcere.

Peraltro la stessa idea arretrata, rimodulata sull’ordinamento penitenziario, ha corroso la funzione della pena, come dimostra la vicenda dell’ergastolo ostativo da poco dichiarato, sia pur a termine, incostituzionale, dopo anni di indefessa applicazione. La verità è che per il diritto vivente la custodia cautelare è quella anticipazione della pena che la Costituzione non vorrebbe e lo è proprio perché la magistratura italiana, da decenni, sposa l’idea del processo come strumento di difesa della società. Per questo, di fronte all’incerto destino della pena a causa della irragionevole durata del medesimo, si preferisce applicare il motto “pochi, maledetti e subito”, caro ai bottegai romani. Altro che extrema ratio. È un problema di cultura, si sarebbe detto negli anni Settanta, una cultura autoritaria ove peraltro regna una logica capovolta: più è grave il reato meno garantiti sono il processo e la pena. Ciò travolge anche la presunzione di non colpevolezza. Nella maggior parte dei paesi occidentali, e secondo le convenzioni internazionali, questo è un principio fondamentale che garantisce il soggetto debole, l’imputato, di fronte alla straordinaria potenza dello Stato che lo accusa.

Violando questo principio si finisce per alterare i meccanismi decisionali del Giusto processo e dunque del prodotto finale, la sentenza. Presentare l’imputato come un colpevole, dunque anche diffondere elementi di prova come intercettazioni, filmati e via discorrendo prima del processo vero e proprio, letti in funzione accusatoria, nel corso di conferenze stampa indette dai pm, viola quel principio. Il corto circuito che nel nostro paese si verifica da decenni su questo tema è troppo evidente per insistere, semmai è importante sottolineare che anche le ragioni che la magistratura italiana adduce per giustificare tali pratiche, cioè da un lato il dovere da parte degli organi giudiziari di informare direttamente la pubblica opinione e dall’altro di consentire un controllo pubblico dell’etica della classe dirigente, sono espressioni della medesima visione culturale del processo come strumento di difesa sociale che snatura la funzione giurisdizionale, anche perché fatalmente porta alla ricerca del consenso all’azione giudiziaria. I magistrati sono sottoposti alla legge e solo alla legge, per questo sono indipendenti, se cercano il consenso sociale – in qualche caso pretendono, vedi la stagione di mani pulite e l’epica antimafia – ciò dipende proprio da quella distorta visione del processo.

Identica matrice si ritrova anche nella opposizione alla separazione delle carriere tra giudici e pm largamente maggioritaria nella magistratura italiana. Accusare e giudicare sono questioni diverse e l’una deve essere autonoma e indipendente dall’altra. Non è faccenda di rapporti di colleganza o di caffè consumati assieme al bar come, con micidiale idiozia, concionano avversari o supporter della separazione delle carriere, ma di rapporti di potere all’interno del medesimo ordine. Rapporti di potere reali, effettivi, che possono condizionare l’esercizio del soggetto fatalmente più debole – se non altro perché privo dell’impressionante dotazione repressiva, in uomini, mezzi e soprattutto norme, in dotazione alle Procure – cioè il giudice. Il che rende evanescente quella funzione di terzietà che solennemente la Costituzione proclama all’articolo 111.

Il pensiero, su questo tema, corre al Palamaragate, ma anche alle vicende legate alle dichiarazioni del Procuratore Gratteri e a quelle del processo Eni a Milano, e non occorre aggiungere altro. Terzo significa equidistante da un punto di vista valoriale, cioè indifferente alla prevalenza delle ragioni punitive dello Stato o a quelle di libertà dell’imputato. Di nuovo una questione culturale, di cultura dei soggetti processuali, che deve essere unica per tutti: pm, giudici, avvocati e, si parva licet, anche di chi si occupa della informazione giudiziaria. La pretesa di identificare nella magistratura, e solo nella magistratura, la depositaria di una cultura unica, la mitica e vaporosa cultura della giurisdizione, che legittimerebbe l’unitarietà delle giudici/pm in un solo corpo giudiziario, di nuovo affonda nella distorta visione della funzione giudiziaria come scudo della società nei confronti dei fenomeni devianti. Insomma, l’identificazione della giurisdizione nel suo complesso con l’azione dell’accusa, il gigantismo delle procure, la ricerca del consenso da parte dei pm, l’utilizzo incostituzionale della custodia cautelare come anticipazione di pena, lo straordinario e prolungato utilizzo delle intercettazioni, e molto altro ancora sono il frutto della medesima idea, quella del processo come strumento di difesa sociale che pervade la magistratura italiana.

Per cambiare questa idea l’unica maniera è creare le condizioni strutturali affinché se ne affermi una diversa. Ciò significa non solo modificare l’ordinamento della magistratura separando giudici e pm, ma anche rendere la magistratura stessa diversa da quella corporazione chiusa che è. Se la figura del pm è ormai dominante, fuori e dentro il processo, la responsabilità, infatti, non è solo di un legislatore bislacco esposto a ogni refolo di populismo giudiziario, ma della giurisprudenza, che è parto dei giudici, non dei pm. Sono loro che devono cambiare cultura, e per farlo devono prima perdere il monopolio assoluto della giurisdizione attraverso un significativo accesso laterale di soggetti diversi, non monopolizzati dalle pratiche correntizie fin dall’ingresso come uditori – come abbiamo appreso da Palamara che su questo non è stato smentito da nessuno – e non condizionati da una idea palingenetica dell’azione giudiziaria. Questo è compito della Politica che non può essere delegato alle commissioni ministeriali.