Il caso giudiziario è quello che suscitò grande clamore a fine ottobre scorso quando, durante un tentativo di rapina commesso in pieno giorno, a Posillipo, Annamaria Malangone, la vedova 80enne del noto velista Beppe Panada, fu spinta a terra e dopo tre giorni di agonia morì. Il protagonista del caso giudiziario è Germano G., psicologo 45enne, con incarichi in passato anche al Tribunale per i minori di Napoli: è accusato di aver tentato lo scippo che ha causato la morte della signora Malagone e di averne messi a segno altri cinque nella stessa giornata.

Ai giudici la madre dello psicologo ha rivolto un appello affinché la pena non sia soltanto punizione, affinché la funzione costituzionale della reclusione sia rispettata assieme al diritto alla salute del detenuto. «Lasciate che mio figlio si disintossichi, ha bisogno di cure specifiche, la droga e il crack lo hanno devastato Non chiedo sconti di pena per mio figlio. Ha commesso gravi errori, ma l’averlo privato della comunità lo sta allontanando dalla salvezza», ha detto la donna in un accorato appello indirizzato al giudice che ha disposto il trasferimento del 45enne dalla comunità al carcere. Il trasferimento è stato conseguenze del fatto che a carico dello psicologo erano emersi indizi anche relativi ad altre rapine. «Quello che mi mette maggiormente angoscia – ha aggiunto la mamma di Germano G. – è la delusione che sento nelle sue parole, durante i pochi minuti che mi concedono per parlargli».

Il primo giudice gli aveva concesso di ‘rinascere’, il secondo adesso invece gli sta negando il diritto alla salute. La mamma del 45enne ha scritto una lettera aperta al garante dei detenuti della Campania per chiedere il suo intervento: «Non vogliamo sconti di pena – ha concluso la donna – ma solo che un tossicodipendente che nessuno più vuole ascoltare non venga abbandonato a se stesso».

La storia pone l’attenzione su una questione antica: è davvero giustizia quella che trasforma la pena in una vendetta? La Costituzione deve essere sempre il faro e la Costituzione dice che la condanna deve tendere alla responsabilizzazione del detenuto, al recupero del condannato. Pur avendo, quindi, rispetto e consapevolezza del dolore e del danno causato alle vittime, non si può intendere la giustizia come una sorta di vendetta. E per questo bisognerebbe valutare bene ogni singolo caso prima di rinchiudere in una cella, senza alcuna assistenza specifica, chi ha problemi di tossicodipendenza. Perché equivarrebbe a trasformare la reclusione in unica e vendicativa punizione.

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).