Il nuovo ministro
Nordio assente sulla Giustizia, prime decisioni non in linea con il garantismo
In un governo composto di Carneadi avevamo salutato con sollievo la nomina di Carlo Nordio a ministro della Giustizia. Personaggio noto, e per benemerenze. Garantista, liberale, equilibrato e fuori dalle correnti. Tuttavia bisogna dire con chiarezza che i primi passi del governo in materia di giustizia non appaiono in linea con la decisione, pare fortemente voluta da Giorgia Meloni, di portare a Via Arenula un aperto sostenitore degli scorsi referendum sulla giustizia.
Sarà che il governo è in attesa di mettersi al lavoro sui drammatici dossier economici e sociali, ma in questi primi giorni ha palesato propositi e intendimenti che nulla hanno a che vedere non solo con il garantismo ma con ciò che occorre con urgenza al paese. È stata istituita una nuova figura di reato in tema di libertà di riunione, in controtendenza con quel processo di depenalizzazione, o quantomeno di non aggravamento ulteriore del diritto penale sostanziale, su cui tutti o quasi si dicono d’accordo. Pensiamo, soprattutto, al decreto legge in tema di ergastolo ostativo e al blocco della riforma della giustizia firmata dal precedente ministro Marta Cartabia, sui quali ci soffermeremo in particolare in quanto il tema delle riunioni è ampiamente trattato dalla stampa.
Sul piano degli ergastoli ostativi, o meglio dei reati ostativi, cioè che impediscono di accedere ad ogni forma di beneficio, il governo ha trovato una pseudo-soluzione al problema posto un anno fa dalla Corte costituzionale. Lì si trattava di scongiurare l’automatismo tra concessione dei benefici e ravvedimento, qui il governo, pur togliendo l’automatismo – che è incostituzionale – lo sostituisce con una disciplina altrettanto dubbia nel non consentire in fatto che tali benefici siano una prospettiva concreta, per quanto da percorrere con prudenza. Il governo impone infatti che il detenuto dia prova di “circostanze specifiche” che oscillano tra la “probatio diabolica” e la pura impossibilità, ovvero di aver rotto ogni rapporto con il sodalizio di origine per il presente, provando sempre con i suddetti elementi che tale rapporto (per il futuro) non venga riattivato, anche indirettamente e tramite terzi.
Vedremo cosa la Corte costituzionale dirà a proposito di questo meccanismo che appare, a prima vista, ripristinare una concezionale strumentale dell’essere umano e far strame del principio costituzionale della rieducazione della pena e, di conseguenza, condannato. Tanto più che il governo allunga il termine per la richiesta della liberazione condizione, sempre in subordine delle condizioni predette. Sul piano della riforma Cartabia, va ricordato che essere è richiesta dal Piano nazionale di ripresa e resilienza e la sua adozione è condizione per l’ottenimento di fondi europei. Del resto la lunghezza dei processi è con tutta evidenza un ostacolo alla competitività del nostro sistema paese e alla sua crescita. Ebbene il governo sospende l’entrata in vigore della riforma limitatamente al campo penale e non meglio precisati adeguamenti organizzativi.
È forte la sensazione di un approccio ideologico, dal momento che la riforma Cartabia fu ampiamente partecipata in sede di elaborazione e approvata quasi dall’interezza del parlamento, compresa una buona parte della base del governo attuale. Se davvero fossero pregiudiziali degli adeguamenti organizzativi probabilmente due mesi non basterebbero e anche il settore civile, per come è messo, ne avrebbe bisogno. Il rischio è che il breve rinvio serva solo a dare fiato a posizioni che si sono opposte alla riforma e che la proroga sia un segnale politico di discontinuità dal governo Draghi. In tutto questo brilla per assenza il ministro Nordio, il quale al più ha esternato sulla necessità di tornare sull’abuso d’ufficio per rimuovere la “sindrome della firma”, ovvero la paura degli amministratori di essere indagati, che frena la pubblica amministrazione. Troppo poco.
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