La riforma della giustizia pensata dal ministro Carlo Nordio è insidiata da più parti e soprattutto dai soliti noti. L’intenzione del Ministro è quella di andare avanti e il Parlamento aspetta il testo su cui avviare la discussione che dovrebbe arrivare nei prossimi giorni.

Nordio appena uscito dal Palazzo del Quirinale, dopo aver giurato il 22 ottobre scorso, incontrando i giornalisti aveva affermato che bisognava procedere quanto prima a “separare le carriere dei magistrati”, “depenalizzare”, “accelerare i processi che costano all’Italia due punti di Pil”. Musica per le orecchie dei tanti operatori del diritto da tempo in attesa di una riforma della giustizia effettivamente liberale dopo gli anni terribili dell’oscurantismo manettaro e forcaiolo dei grillini.

Nordio, suscitando l’apprezzamento anche di forze politiche all’opposizione come Azione e Italia Viva, ha sempre sottolineato la necessità di una “svolta” sulla giustizia, allargando l’orizzonte riformatore alle intercettazioni telefoniche, alle misure cautelari, all’esecuzione della pena, al carcere, al divieto di appello in caso di sentenza di assoluzione. Sicuro di essere sulla strada giusta e godendo dell’appoggio – sulla carta – di gran parte del Parlamento, l’ex procuratore aggiunto di Venezia fortemente voluto dalla premier aveva quindi dettato l’agenda con cui l’esecutivo avrebbe realizzato questo “vasto programma” riformatore.

Lo scorso dicembre aveva dunque annunciato le priorità: primo step, la riforma dei reati contro la Pubblica amministrazione e quindi l’abolizione del reato di abuso d’ufficio “entro gennaio”. L’abuso d’ufficio, il terrore dei sindaci e degli amministratori, era stato già modificato nel 1990, nel 1997, nel 2012, e da ultimo nel 2020 durante il governo giallo-rosso. L’ultima modifica aveva limitato il reato alle sole regole che non implicano l’esercizio di un potere discrezionale, escludendo quindi che la violazione di una specifica ed espressa regola di condotta, caratterizzata da margini di discrezionalità, potesse integrare una fattispecie penalmente rilevante. Questa modifica, però, era ritenuta non sufficiente da parte dello stesso Pd che se ne era fatto promotore.

“Ora più che mai la riforma dell’abuso d’ufficio è assolutamente necessaria: l’ipotesi di reato va prevista solo nel caso di chiaro e consapevole dolo per privilegiare illegittimi interessi privati, propri o altrui”, aveva detto all’epoca in una intervista Piero Fassino, già Guardasigilli, poi sindaco di Torino e presidente dell’Anci. “Del resto – aveva aggiunto – che oggi l’abuso di ufficio sia una fattispecie di reato dal profilo incerto è provato dal fatto che la stragrande maggioranza degli amministratori e dei dirigenti pubblici indagati per abuso d’ufficio viene prosciolta e non va neppure a processo. E gran parte di quelli processati vengono assolti.Ora, se c’è una forbice troppo alta tra indagine e colpevolezza comprovata allora quel reato va ridefinito”. Parole chiare che non lasciavano spazio a dubbi.

“Spesso non ci si rende conto – aveva aggiunto Fassino – della quantità di responsabilità che un amministratore pubblico ha sulle proprie spalle, esposto al rischio permanente di essere accusato di abuso d’ufficio per il solo dato oggettivo di ricoprire una funzione pubblica”, facendosi così portavoce dei tanti funzionari che, per paura di essere indagati, sono portati a non firmare più alcun atto e ad assolvere strettamente all’ordinaria amministrazione o, peggio ancora, a moltiplicare adempimenti burocratici superflui pur di mettersi al riparo da un’indagine.

“Un sindaco o un assessore è un uomo politico e si assume la responsabilità del rischio, ma un funzionario, perché deve rischiare inutilmente la propria carriera, la propria onorabilità? Non firma le carte e si limita a fare l’ordinario. Con conseguenze ovviamente molto negative sull’efficienza dell’amministrazione, che viaggia con il freno a mano tirato”, aveva puntualizzato Fassino. Concetti ripresi nei mesi scorsi dal compagno di partito Antonio Decaro, sindaco di Bari e attuale presidente dell’Anci.

“Le parole di Nordio – aveva affermato Decaro – ci fanno ben sperare rispetto alla risoluzione di un problema annoso che i sindaci denunciano da tempo e che non ha trovato la giusta attenzione del Parlamento e del governo. Oltre a ringraziare il ministro sento di poter dare da subito la disponibilità dei sindaci e dell’Anci a riprendere il dialogo sulle norme relative alla responsabilità dei sindaci che spesso si ritrovano a pagare in prima persona un prezzo troppo alto per situazioni non sempre riconducibili alle loro competenze”.

Da allora, è iniziato un martellamento incessante da parte dei magistrati, contrari ad ogni possibile riforma, e del loro quotidiano di riferimento, il Fatto Quotidiano. Per evitare la riforma di questo reato è sceso in campo il gotha della magistratura italiana. Solo per citare qualche nome, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, “è del tutto irragionevole”, il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, “non suona bene alle orecchie europee”, il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia “l’abolizione favorisce la mafia”.

C’è il sospetto, allora, che dietro questo ritardo si possa nascondere il ben noto potere di interdizione delle toghe, che Nordio sta sfidando. Un potere che ha tentato di “incrinare” la maggioranza di governo, rallentandola. Perché si sa, i magistrati come noto, apprezzano esclusivamente le riforme di proprio gradimento.

Paolo Pandolfini

Autore