La riflessione sul rapporto fra gli adolescenti e il web
I nostri giovani e i social: non incolpiamo Internet per le recenti tragedie, da Roma a Modena. Incolpiamo noi stessi
Le tragedie in cui, di recente, sono sfociate due challenge social – ovvero l’incidente stradale a Roma, in cui ha perso la vita il piccolo Manuel, provocato da un gruppo di Youtuber intenti a filmarsi, nonché il tuffo a favor di smartphone, del giovane che ha perso la vita nel fiume Secchia – ci impongono una riflessione sul ruolo degli adulti, della scuola, delle istituzioni
Quattro youtuber prendono a noleggio una Lamborghini per guidarla per 50 ore di fila e filmarsi. Fanno un incidente a Casal Palocco, in cui perde la vita un bambino e rimangono feriti la sorella e la mamma. Questi i fatti. La colpa è di YouTube. Questa la sentenza che alcuni hanno già emesso. Sui social e nel web i ragazzi fuggono dalla realtà, dobbiamo impedirlo. Questa la tesi accusatoria.
Lo si dice spesso, e lo si è urlato dopo questa tragedia e anche dopo il caso di Modena in cui un ragazzo non è riemerso dal Secchia mentre, apparentemente, girava un video con degli amici. La tragedia che vede i TheBorderline protagonisti ha le sue radici in una challenge, sì, ma ancor di più nella ricerca di guadagni facili, con contenuti diseducativi, incomprensibili e perfino da vietare, secondo alcuni.
Ma la domanda che dovremmo farci è perché? Cosa manca ai ragazzi di oggi per vivere i social e le connessioni in modo sano? Perché le nuove generazioni cercano, spesso, nei social un mondo irreale e irrealistico? Perché spesso ne fanno un uso distorto che arriva a mettere a repentaglio le loro vite e quelle di altri? Cosa abbiamo fatto negli ultimi anni per dare ai ragazzi gli stimoli “giusti”, sani o anche solo per supportarli in un`epoca di cambiamento e di incertezza come quella attuale?
Pensiamo al periodo del Covid. Li abbiamo chiusi per due anni in camera, garantendo loro che potevano studiare e perfino laurearsi anche dal loro letto. E lì li abbiamo abbandonati. Li abbiamo privati della vita a scuola e in università, aspettandoci che il pc davanti ai loro occhi colmasse quello che era stato tolto. Lo stesso pc da cui ora chiediamo loro di scappare, di fuggire. Era una necessità, quel periodo di clausura, e gli studenti così come il resto d’Italia hanno fatto la loro parte.
Ma, a differenza di altre categorie, sono stati lasciati in balia di un cambiamento più grande di loro: e quando la tanto urlata nuova normalità è arrivata abbiamo tutti pensato a riprenderci due anni di occasioni mancate. Ma non a loro, che nella nuova normalità ci sono arrivati per ultimi e senza esservi accompagnati.
Pensiamo alla salute mentale. Se ne parla tanto, anche a causa della pandemia appena terminata. Ne dibattiamo, abbiamo fatto un bonus che ha soddisfatto una persona su dieci e aperto ad ogni età, e poi basta. Ma se questa è lìepoca dell’incertezza e della complessità, basta forse un bonus? O forse è necessaria la nascita di una reale politica sanitaria che tratti questo tema con la giusta attenzione e soprattutto con azioni reali e concrete? Che interventi sono stati fatti per togliere tutti gli ostacoli di accesso allo sportello scolastico, aumentarne le aperture nelle scuole ed evitare code che neanche al padiglione del Giappone all’Expo 2015?
Pensiamo al ruolo della scuola. Abbiamo programmi meravigliosi, siamo bravissimi a insegnare la prima declinazione e la differenza tra vassalli e valvassori, ma non diamo gli strumenti per capire e affrontare l`attualità. Social, nuove professioni, tecnologia, politiche sociali, politiche civili. Stiamo dando alla parola formazione un significato accademico, e stiamo perdendo il suo significato più profondo. Col risultato che terminati gli studi non abbiamo persone pronte, non tanto al lavoro ma al mondo in cui entrano.
Pensiamo ai professori. Ci sono docenti che insegnano ai loro studenti come è il mondo. Ci sono professori che vivono la loro missione stando loro vicino, vivendo i ragazzi, ascoltandoli, dialogando, parlando il loro linguaggio, portandoli a porsi domande che vadano al di là del programma da studiare. Ci sono professori che fanno tutto questo da soli e che andrebbero invece donati e sostenuti con ogni mezzo possibile.
Pensiamo alle battaglie che spesso i ragazzi fanno loro. E a come le colpevolizziamo. A chi chiede condizioni migliori per l’alternanza scuola lavoro o gli stage, a chi fa della sostenibilità e del futuro del Pianeta un valore e non un’etichetta, a chi chiede un affitto sostenibile: quanto volte ci siamo fermati a discutere la sostanza della battaglia e non la forma? Quante volte abbiamo evitato di giudicare?
Pensiamo alla nostra adolescenza. Guardiamo sempre storto, con naturalezza, chi passa una serata in discoteca, ci solleviamo se un locale chiude o ci lamentiamo se ora che le scuole sono chiuse i ragazzi invadono le piazze del paese, senza chiederci se abbiamo dato loro un posto dove stare. Ma come possiamo pretendere che i ragazzi facciano le esperienze che segnano il passaggio alla vita adulta senza dar loro spazi, tempi, luoghi? Come facciamo a lamentarci se passano ore davanti allo schermo di un telefono se non possono fare altro perché il più delle volte gli è impedito?
Pensiamo a noi genitori. Siamo certi di essere gli esempi migliori? Siamo certi che la contrapposizione spesso romanzata tra boomer e GenZ sia una battaglia dove i primi vincono a mani basse? Possiamo affermare senza paura che i ragazzi sono digitalmente un passo avanti a noi, e che certe logiche commerciali nascono da esempi che sono stati offerti loro non certo da coetanei ma da chi ha qualche anno in più. Forse un’autocritica in più, un momento in cui ascoltare davvero i ragazzi e le loro esigenze, il fermarsi dal mettere addosso etichette e soprattutto, dar loro azioni concrete sarebbe necessario. Da papà, e da collega di tanti ragazzi, faccio autocritica. Scusate ragazzi.
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