Quando sono gli eventi a caderci addosso con tutta la loro imponderabilità, a spogliarci inaspettatamente delle nostre abitudini e a farci temere per la nostra vita, è inevitabile che siano le emozioni a prendere il sopravvento sull’oggettività dei nostri giudizi, a sovvertire gerarchie di valori, a decidere che cosa è necessario e cosa non lo è. È capitato spesso in questi giorni di assistere a contrapposizioni e alternative anche là dove non sussistono, amplificate, come spesso capita, dalla suscettibilità che è propria della comunicazione sui social. Si può dire che hanno contribuito a questo anche le ordinanze e gli inviti insistenti di governanti, sindaci, presidenti di regione, giornalisti, medici e ricercatori.
Il conflitto dai toni più aspri non poteva che essere quello che ha visto collocati su sponde opposte il comportamento dei singoli e l’interesse della popolazione nel suo insieme, una inimicizia storica tra privato e pubblico, individuo e collettivo, che, in condizioni di pericolo comune, assume una particolare evidenza. Contro gli sportivi e i cittadini che non hanno voluto rinunciare alla loro passeggiata, con o senza cane, o all’incontro con amici, sia pure per strade o in parchi quasi deserti, i divieti venuti dalle autorità istituzionali e, per un altro verso, le ire di quanti hanno rispettato la buona regola di “restare a casa”, hanno finito per fondersi in un unico coro di insulti e minacce agli “ untori”, agli “irresponsabili”, facendone una sorta di “capro espiatorio”, come già ci avevano abituato le politiche salviniane.
Eppure sarebbe bastato un ragionamento elementare sulla libertà e i suoi limiti per evitare animosi schieramenti: la possibilità che ha il singolo di correre e passeggiare alla distanza necessaria per evitare il contagio è garantita solo dal fatto che altri stanno in casa. Scoprire che siamo dipendenti gli uni dagli altri, non solo nel bisogno e nella vulnerabilità ma anche nei desideri, mette a dura prova la centralità che ha sempre avuto l’interesse personale, prima ancora che il neoliberismo facesse dell’ io “l’imprenditore di se stesso”. Viene allo scoperto, in altre parole, la rimozione che l’individuo fa del sociale, analoga a quella opposta del sociale nei suoi confronti.
Irresponsabilità, cattiva educazione, familismo italico? L’occasione per affrontarlo potrebbe essere l’eredità positiva che il coronavirus lascia al futuro. Per ora è la reazione, comprensibile anche se viscerale, di una parte della popolazione, in mancanza di regolamenti più chiari da chi ci governa. Altro motivo di prevedibili contrapposizioni, in questo più giustificate, è il rilievo che ha preso la questione delle uscite sportive rispetto al duplice ricatto che ha continuato a tenere finora i lavoratori nelle fabbriche: la paura del contagio per sé e la propria famiglia e la perdita di una entrata economica indispensabile.
La lentezza con cui il governo è arrivato finalmente a chiedere la chiusura delle attività produttive non essenziali per la sopravvivenza, ha messo allo scoperto ciò che già sappiamo ma che dimentichiamo in fretta, e cioè che ci sono vite che contano meno di altre, che le persone, in una società fondata sul profitto, vengono dopo le cose, che dietro l’ “interesse sociale” si nasconde spesso il privilegio di pochi.
Infine, anche se di minor conto, non è mancata la protesta per quei pochi segnali di conforto e solidarietà che passano a ore fisse del giorno da finestre aperte tra casa e casa – cenni di saluto, applausi, qualche nota musicale – sentiti da alcuni come offensivi per chi vive in questo momento la drammaticità di tanti lutti. Ora, è proprio la scoperta che ad accomunarci è la morte, sia come limite naturale di ogni vivente che come pericolo che arriva inaspettato in un passaggio della nostra storia, a farci riflettere su quanto abbiamo trascurato finora il piacere di fermare anche per pochi minuti, lo sguardo sul “vicino” che ci è passato accanto per anni e che non abbiamo mai visto, perché lo abbiamo considerato “un estraneo”.