Era il dicembre dello scorso quando, a proposito dell’annunciata campagna vaccinale, sulle colonne di questo giornale si poteva leggere che «l’astuzia del diritto è sempre alle porte, pronta a soccorrere i governanti più imbelli e a tirarli fuori dagli impicci. Vaccinarsi, per carità, resterà sempre su base volontaria, ma se vuoi continuare a lavorare in fabbrica o in ufficio devi vaccinarti, se vuoi entrare a scuola devi essere vaccinato, se vuoi salire su un treno o in aereo devi esserlo, guai se vieni trovato su un mezzo pubblico senza esibire insieme biglietto e certificato di vaccinazione. Superare un concorso, entrare in un locale pubblico e si potrebbe proseguire all’infinito, tutto soggiace alla medesima regola».

L’avevamo detto, quando il duo Conte-Arcuri ancora imperava e preannunciava mirabolanti campagne all’insegna delle primule. Brutto a dirsi “l’avevamo detto”, è chiaro, ma è ancora peggio a vedersi che dopo otto lunghissimi mesi di chiacchiere e amene discussioni sui massimi sistemi siamo ancora a dover stabilire se il vaccino possa essere reso obbligatorio per legge oppure se la solita Italietta preferisca nascondersi dietro l’escamotage del green pass per aggirare ancora il problema. Si dirà che accade un po’ in tutto l’Occidente, ma c’è poco da andarne fieri perché è il segno della drammatica fragilità delle democrazie non deliberanti, divenute prigioniere di agguerrite minoranze e che fuggono scompostamente alla vista di quattro giovanotti barbuti in turbante e kalashnikov.

La situazione che si sta consolidando agli occhi della pubblica opinione è paradossale. Il green pass non è imposto per legge, ma costituisce piuttosto, e obliquamente, la condizione per accedere a determinati luoghi. Si potrebbe discutere, non senza fondamento, della legittimità di una tale imposizione che circoscrive e limita la libertà di movimento o di riunione, il diritto al lavoro o alla cultura e mille altre cose su larga scala costringendo i cittadini a dotarsi di quelle che secoli or sono in tempi di pestilenza si chiamavano “fedi di salute” ossia – come le definiva Salvatore Pennisi in uno splendido saggio del 2002 – un «vero e proprio passaporto sanitario, che ne certificava la provenienza da un territorio “libero per la di Dio grazia da ogni male e sospetto di male contagioso”».

Quando la clessidra della storia sanitaria flette verso un passato così remoto e buio, verso soluzioni così fragili e stravaganti, non c’è da meravigliarsi che si ascolti di tutto e che pretendano una tribuna e un contraltare le opinioni più disparate e le fake news più improbabili. Se si sposta la discussione nel quadrante delle “fedi di salute” è chiaro che ogni più arcaico e gretto sospetto può agitare le menti fragili e i complottisti più proclivi. Ecco, porre al centro della discussione pubblica un argomento come il green pass è equivalso a una tragica involuzione del dibattito, pur indispensabile, sull’ obbligo vaccinale e ha aperto la strada a trabocchetti e imboscate in cui sono precipitati leader politici, sindacalisti, imprenditori, presidi e con loro mezza classe dirigente del paese. Colpa della fragilità della politica e dell’astuzia di quanti hanno immaginato di poter, per questa via, esercitare un soft power che portasse i più riottosi e sospettosi ad adeguarsi alla pratica vaccinale. Con il risultato di milioni di persone che bellamente rivendicano il diritto a potersi contagiare e si acquattano nella zona grigia dei renitenti.

Di fronte a questo pericoloso calvario della ragione e del diritto ci sono volute, ancora una volta, poche ore or sono, le parole chiare del presidente Mattarella che ha scandito con millimetrica precisione che vaccinarsi è un dovere. Altro che green pass e amenità del genere. «Sostituire alla vaccinazione obbligatoria per legge il maquillage della coazione inter pares, l’escamotage dell’imposizione tra cittadini, fondata su gerarchie sociali ed economiche cui non ci può sottrarre, è un pessimo esempio e un grave fuga dalle proprie responsabilità. L’articolo 32 della Costituzione recita che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”; una norma che non consente trucchi o scorciatoie, né obliquità causidiche.

A chi immagina di lavarsi le mani del problema – grave e impellente – di sancire l’obbligatorietà o meno del vaccino e di scaricare sulla popolazione il “ricatto” pandemico, occorre ricordare che la volontà popolare ha ancora un suo tempio, il Parlamento, ed è lì che si deve affrontare la questione, senza bisogno di kapò chiamati a fare il lavoro sporco tra i consociati». Si, è vero, lo avevamo già detto il dicembre dello scorso anno, ma è che il Santo Natale non è poi così lontano.