La condanna
OH, NOO…! Davigo condannato anche in appello: l’altra lettura dei fatti

Un anno e tre mesi in primo grado. Un anno e tre mesi in appello.
È finita ieri nel peggiore dei modi, con la conferma della sentenza di condanna per rivelazione del segreto d’ufficio, il processo a Brescia nei confronti di Piercamillo Davigo.
Il ricorso in Cassazione, che il difensore di Davigo, l’avvocato Davide Steccanella, ha già annunciato di voler presentare, riguarderà – in caso di sua ammissibilità – non il merito dei fatti ma solo eventuali violazioni di legge da parte dei magistrati bresciani. In attesa delle motivazioni, è verosimile immaginare che la Corte d’appello di Brescia abbia dunque sposato integralmente la lettura dei fatti offerta dai giudici del primo grado.
Il caso
La vicenda ebbe inizio nei primi mesi del 2020. Il pm della Procura di Milano Paolo Storari, a dicembre dell’anno precedente, aveva interrogato l’avvocato Piero Amara nell’ambito del procedimento “Complotto” ai danni dell’Eni. Durante l’interrogatorio, condotto da Storari e dalla allora procuratrice aggiunta Laura Pedio, Amara aveva dichiarato che fosse giunto il momento di “scoperchiare il vaso di Pandora” e di rilevare così l’esistenza della loggia Ungheria.
La loggia Ungheria
La loggia super segreta, composta da magistrati, alti ufficiali delle forze dell’ordine, professionisti, avrebbe avuto, secondo Amara, lo scopo di aggiustare i processi per i sodali e pilotare le nomine al Csm per le toghe amiche.
Storari era pronto ad effettuare le indagini ma sarebbe stato frenato dai vertici della Procura di Milano. “Mi sono trovato davanti ad un muro di gomma”, dirà poi Storari. “In questo momento non voglio fare niente perché tra le persone chiamate da Amara nella loggia Ungheria c’è il generale Zafarana (Giuseppe), comandante generale della guardia di finanza, io non me lo voglio inimicare perché devo sistemare il colonnello Giordano del Nucleo di polizia valutaria”, gli avrebbe risposto il procuratore di Milano Francesco Greco.
Anche il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, impegnato nel processo Eni-Nigeria, dove Amara era il principale testimone, lo avrebbe frenato, dicendogli che “secondo me questo fascicolo … queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto per due anni”.
Visto lo stallo investigativo, Storari decise di rivolgersi a Davigo, all’epoca componente del Csm.
I due si incontrato a casa di Davigo e in quella occasione quest’ultimo prese da Storari una chiavetta usb con la copia word dei verbali di Amara, tutti però coperti dal segreto istruttorio. Davigo rassicurò Storari dicendogli di non preoccuparsi non essendo, a suo dire, opponibile il segreto istruttorio ai componenti del Csm. Tesi, quella che il segreto d’indagine vale per tutti in Italia tranne che per i magistrati del Csm, che Davigo ha sempre sostenuto in questo processo. L’ho fatto “in buona fede” fu invece la giustificazione di Storari, anch’egli inizialmente accusato di rivelazione del segreto e poi però assolto proprio perché si era fidato di Davigo. L’ex pm di Mani pulite, lette le carte, disse a Storari che si trattava di fatti “gravissimi” ed iniziò a parlarne con numerosi componenti del Csm con modalità, scriveranno i giudici, “quasi ‘carbonare’ che appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale”. Al vice presidente David Ermini, in un incontro, disse di lasciare prima il telefonino perché “le forze di polizia potevano fare intercettazioni non legali”.
Il processo ha invece dato un’altra lettura dei fatti. Nel mirino di Davigo non ci sarebbe stata ‘l’inerzia investigativa’ della Procura di Milano bensì il suo collega al Csm Sebastiano Ardita, risarcito in questo procedimento con 20mila euro. Davigo ed Ardita in passato erano stati grandi amici, avendo fondato anche una corrente della magistratura, Autonomia&indipendenza, che ebbe un grande seguito nel 2018, anno in cui Davigo venne eletto con 2500 voti al Csm. Il magistrato si era però convinto che Ardita, ora procuratore aggiunto a Catania, fosse un massone. “Stagli lontano, io non mi fido, c’è una brutta indagine su di lui in una Procura del Nord”, avrebbe detto ad Ermini per fargli terra bruciata intorno.Per i giudici bresciani Davigo in quei mesi polarizzò “chirurgicamente” l’attenzione su Ardita.
La verità era più semplice
“Anche gli albori della vicenda appaiono avvolti da una coltre di opacità”, si legge in un passaggio della sentenza di primo grado, e “si è assistito ad un vero e proprio sterminio di corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica, che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti”.“La verità era più semplice del gioco di luci stroboscopiche tentato dall’imputato. Non c’è da sorprendersi, visto che in fondo l’imputato aveva anche confessato di aver commesso i reati per i quali oggi è stata confermata la condanna”, ha commentato ieri Fabio Repici, difensore di Ardita, sottolineando che Davigo agì al fine di screditare il suo assistito in un momento delicato della vita del Csm e in un momento in cui Ardita era “un ostacolo da abbattere”. La speranza è che “si possa mettere un punto su questo”. Perciò, ha sottolineato ancora Repici, “confido che si potranno individuare ed accertare le ragioni che portarono Amara a verbalizzare le calunnie (l’esistenza della loggia Ungheria, ndr) che furono poi divulgate da Davigo. Nella sua difesa l’ex pm di Mani pulite aveva anche scomodato Alessandro Manzoni e i galantuomini del “ne quid nimis”, espressione sarcastica con cui lo scrittore lombardo prende di mira, l’atteggiamento egoista di chi non vuol fare “nulla più del lecito” per non doversi impegnare per gli altri. I giudici di Brescia non hanno però apprezzato.
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