Finalmente un pubblico ministero lo ha capito
Olindo e Rosa, tutte le prove che dimostrano la loro innocenza in nome “dell’amore per la verità”
Mai visto un caso di questo genere: avvocati difensori e procuratore generale che chiedono, separatamente, la revisione di un processo. E che processo! Rosa e Olindo, la strage di Erba del 2006, la condanna definitiva all’ergastolo, l’infaticabile testardo avvocato Fabio Schembri, e da subito il conduttore di “Iceberg” a TeleLombardia Marco Oliva, e Vittorio Feltri e pochi altri a denunciare l’errore giudiziario.
E in seguito l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti delle Iene. Sono passati diciassette anni prima di approdare finalmente all’ascolto di un pubblico ministero. Perché loro sono innocenti, ormai in tanti ne sono sicuri. Anche se, non solo chi ha condotto le indagini e qualche consulente ambizioso e maldestro, ma anche ventisei giudici ne hanno dichiarato la colpevolezza. E dovrebbero prima o poi essere chiamati a render conto di questo colossale “errore giudiziario”. Chiamiamolo così.
L’estraneità di Rosa e Olindo alla strage in cui furono ammazzati a colpi di spranga e coltello Raffaella Castagna, il figlio di due anni Youssef Marzouk, la madre di Raffaella, Paola Galli, e la vicina di casa Valeria Cherubini la sera del’11 dicembre 2006, ha convinto il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser ad avanzare alla corte d’appello di Brescia la richiesta di revisione del processo. Un gesto clamoroso da parte del magistrato che gode di molta stima da quando, come procuratore capo a Bolzano, nel 2001 attuò una vera rivoluzione organizzativa, riuscendo a smaltire tutto l’arretrato, a ridurre i costi e ad attuare un progetto che diventerà esempio di efficienza per tutte le procure italiane.
Dopo dieci anni alla Corte Penale Internazionale il dottor Tarfusser è sbarcato alla procura generale presso la corte d’appello di Milano. E qui si è imbattuto nei legali di Rosa Bazzi e Olindo Romano (oltre a Schembri, anche Luisa Bordeaux, Patrizia Morello e il professor Nico D’Ascola) con le loro richieste di revisione del processo. Ha dato ascolto, ed è la prima volta che succede in un caso così clamoroso e con ergastoli dopo tre gradi di giudizio. Così ha informato la dirigente dell’ufficio Francesca Nanni e l’avvocata generale dello Stato Lucilla Tontodonati, con una relazione di venti pagine, la sintesi di una storia che racconta prima di tutto indagini sciatte, ma anche qualche spintarella perché il caso fosse risolto subito, perché trionfasse una qualche “verità” che servisse più a mostrare al mondo le grandi capacità investigative di forze dell’ordine e procura, che non a dare giustizia alle vittime.
Il pg Tarfusser scrive nel suo documento di richiesta di revisione processuale di agire “per amore di verità e giustizia e per l’insopportabilità del pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l’ergastolo”. Rosa Bazzi e Olindo Romano, persone semplici, vicini di casa di quella famigliola composta da Raffaella Castagna, il marito tunisino Azouz Marzouk e il loro bambino Yussef, che loro ogni tanto sentivano litigare. La strage, che coinvolgerà anche Paola Galli, madre di Raffaella, e la vicina Valeria Cherubini casualmente sulle scale adiacenti all’appartamento, sarà particolarmente crudele, con armi bianche e modalità di tipo terroristico, tanto sangue e subito dopo anche un incendio.
Il primo sospettato è “naturalmente” l’assente Azouz, extracomunitario con un paio di precedenti per spaccio di stupefacenti. Ma lui è in Tunisia ed esibisce un alibi incrollabile. La pista viene subito abbandonata. Così si trovano i vicini di casa nervosetti, che potrebbero aver impugnato coltelli e spranghe e fatto una strage particolarmente sanguinolenta, solo perché infastiditi dai rumori che provenivano dall’appartamento. Questo sarà il movente che porterà Rosa e Olindo fino all’ergastolo in tre gradi di giudizio. Le prove? Sono tre: la loro confessione, una testimonianza, una macchia di sangue.
Inoppugnabili, all’apparenza. Ma sarebbe bastato aprire gli occhi, come pochi giornalisti, ma nessun magistrato, hanno fatto, per cogliere incongruenze enormi, oggi sottolineate dal pg Tarfusser, e da sempre dai difensori degli imputati. Primo punto, il testimone Mario Frigerio, marito della vittima Valeria Cherubini, rimasto miracolosamente vivo sulle scale benché con la gola squarciata. Viene interrogato in ospedale dal pm Pizzotti e riferisce di aver visto nei momenti della strage uno sconosciuto, un uomo bruno, “di carnagione scura, olivastra” e con i capelli corti. Sembra lucido e preciso, tanto da dire di essere in grado di riconoscere quell’uomo anche tramite identikit.
Per quale motivo nei giorni successivi, proprio quando ci sarà un aggravamento della malattia e farà effetto sulle capacità cognitive del malato l’intossicazione da monossido di carbonio, un luogotenente dei carabinieri per nove volte interrogherà il signor Frigerio non sullo “sconosciuto” dalla pelle olivastra, ma su una persona ben conosciuta, Olindo Romano, fino a inoculare nel ricordo del teste il dubbio e a trasformare le sue deposizioni in atti d’accusa nei confronti del vicino?
Teniamo presente che la richiesta di revisione avanzata dal pg Tarfusser si fonda, sulla base dell’articolo 630 del codice di procedura penale, non solo sull’emersione di nuove prove, ma anche di “falsità in atti o in giudizio”. E questo potrebbe essere il caso, anche se purtroppo nel frattempo il signor Frigerio è morto. Ma veniamo alla “prova regina”, una macchia di sangue, appartenente alla vittima Valeria Cherubini, trovata sul battitacco dell’auto di Olindo Romano. Su questa, che il pg Tarfusser definisce la “prova regina dell’innocenza” di Rosa e Olindo, ha aiutato molto la scienza, con una consulenza biologico-genetica che denuncia addirittura una “accertata inconciliabilità” tra la traccia rilevata e quella repertata.
La prova regina dell’innocenza dei due, appunto. E, a proposito di sangue, è mai possibile che dopo un agguato a base di sgozzamenti, con quattro persone uccise, neanche una goccia sia rimasta sugli abiti o sulle scarpe o nell’abitazione di Rosa e Olindo? Certo, ci sono state le confessioni, anche se in seguito ritrattate. Dichiarazioni di due persone semplici, di cui una, Rosa Bazzi, con visibili carenze cognitive, cui qualcuno aveva detto che “poi” sarebbero stati rimandati a casa. Ed è sufficiente riguardare le riprese audio-video della preparazione che precedeva gli interrogatori per farsi un quadro di quel che è successo in quei giorni, quando una diceva “va bene così?” e l’altro “ma mettete quel che volete”. Dichiarazioni oggi considerate dal pg Tarfusser come “false confessioni acquiescenti”.
Non è un caso il fatto che il più convinto sostenitore dell’innocenza di Rosa e Olindo sia Azouz Marzouk, che nel processo è parte lesa, avendo perso nella strage la moglie e il figlio di due anni. È stato il primo sospettato e avrebbe tutto l’interesse a scaricare ogni responsabilità sui suoi vicini di casa, che forse non gli erano neppure troppo simpatici. Ha invece sempre esortato gli investigatori a seguire piste alternative. Quelle che, scrive oggi il magistrato in 58 pagine destinate alla corte d’appello di Brescia, in quel “contesto malato” delle prime indagini, “se approfondite e valutate avrebbero già sin dal giudizio di primo grado potuto portare a un diverso esito processuale”.
Peccato che tra i ventisei giudici che hanno deciso e confermato gli ergastoli non ce ne sia stato uno, a quanto ne sappiamo, a farsi sfiorare almeno da un dubbio. E intanto i difensori si preparano a presentare sia le intercettazioni ambientali captate in ospedale durante la degenza del signor Frigerio e mai depositate al processo, sia due nuovi testimoni. Un ex carabiniere, un maresciallo del nucleo operativo di Como che, già sentito in indagini difensive, è pronto a testimoniare l’abitudine di certi suoi colleghi a fare pressioni su indagati e testimoni.
C’è poi una persona residente nella casa della strage, che in quei giorni era in carcere e che faceva parte di un gruppo di spacciatori impegnato in una faida con uso di armi bianche in cui fu coinvolto anche il fratello di Azouz. Anche lui ha qualcosa da raccontare, qualcosa che avrebbe potuto portare a piste alternative che 17 anni fa nessuno ha voluto seguire.
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