Mercoledì sera si è concluso dopo 40 udienze davanti alla Corte d’Assise di Roma il processo per la morte del vicebrigadiere Mario Cerciello, avvenuta nel luglio di due anni fa. Due ennesimi ergastoli “in nome del popolo italiano”. Che si aggiungono agli altri 1790 di cui 1250 ostativi (dati forniti tre anni fa dall’associazione Nessuno tocchi Caino): milleduecentocinquanta esseri umani seppelliti vivi e per sempre, “a marcire in galera”, come ha proclamato entusiasta un recente viceministro italiano in occasione di un ennesimo trofeo di caccia esibito a un popolo sempre più assetato di sangue e vendetta perché sempre più socialmente (e culturalmente) offeso e villipeso da chi dovrebbe curarsene.

Da avvocato e da cittadino ogni volta ci sto male, e provo una grande frustrazione davanti a una condanna al “fine pena mai”, una barbarie che quasi tutti i paesi civili e meno civili hanno da tempo abbandonato, e da noi fatta passare per finta giustizia retributiva del dolore delle vittime, come se il carnefice murato vivo restituisse la vita tolta.
Quando sento pronunciare quella condanna che toglie ogni speranza mi sale una tristezza profonda per tutti noi che non abbiamo saputo o voluto aggiornare una pena tombale scritta nel 1930, 90 anni fa, quando il mondo era completamente diverso da oggi, colpito e ancora acerbo tra guerre feroci, dittature e diritti ancora da conquistare, in una Italia dove le donne ancora non votavano e avrebbero dovuto attendere altri 15 anni per poterlo fare. E penso con amarezza a chi almeno una volta all’anno racconta la bella favola di una Costituzione di cui tutti i giorni disapplichiamo il principio cardine su cui si fonda e che vieta pene prive di recupero.

Mi fa rabbia da avvocato sentir parlare di “certezza della pena” da chi ignora che quella stessa legge vetusta che impose l’ergastolo imporrebbe anche di rivalutare il percorso carcerario di ogni detenuto per l’altrettanto imposto reinserimento. E che fu proprio in forza di questa previsione che la Consulta ha fino ad oggi tollerato il mantenimento di una pena in evidente contrasto con la funzione costituzionale della stessa che non si riduce alla retribuzione punitiva per il male compiuto, ma dovrebbe volgere al recupero sociale del deviante. E invece aumentano giorno dopo giorno le pene, i reati, e soprattutto i regimi carcerari ostativi, i 41 bis che equivalgono a una vera e propria tortura in prigioni per lo più indegne di un paese civile e sempre più sovraffollate, e mi fa star male leggere di 1250 detenuti ostativi nell’anno domini 2021 di un’era che si vorrebbe più moderna ed evoluta.

Non ne posso più dei media che corrono sempre cinicamente a cercare la vittima per confezionare il pezzo che piace ai tanti finti Abele di un Paese in realtà sempre più pieno di Caini che hanno bisogno di mostri ingabbiati per giustificarsi i quotidiani soprusi di chi sta fuori. Soffro quando mi viene sventolato in faccia il dolore privato altrui da chi magari di questo dolore neppure si cura e sol perché gli ricordo una semplice verità: che se con la pena di morte lo Stato toglie la vita con l’ergastolo se la prende per intero e per sempre, e mi chiedo cosa sia peggio? Sono convinto che oggi un referendum per ripristinare la pena di morte vincerebbe a man bassa, e allora mi verrebbe da dire, fatelo una buona volta ed eliminiamo l’ipocrisia, perché almeno i sacerdoti del quarto atto dell’Aida – «tigri umane di sangue assetate» gridava la straziata Amneris – non parlavano di diritti e di civiltà per poi calpestarli entrambi.

Io continuerò a non riconoscermi in chi crede che gli uomini siano dei paracarri nati cattivi e che moriranno cattivi anche dopo 50 anni che li hanno fissati al terreno, perché ho visto le persone cambiare in modo radicale nel corso di una vita e sia in meglio che in peggio. Trent’anni di pena sarebbero sembrati pochi vero? E allora ben vengano i due ennesimi trofei americani e quelli che scrivono – mi è accaduto da parte di un magistrato di sorveglianza – che un vecchio detenuto che chiede la semilibertà dopo 45 anni di carcere necessita di “un percorso graduale” (sic!), perché sei anni prima ha tentato di rubare un paio di boxer. Dovremmo almeno noi giuristi, che abbiamo a cuore il diritto, rattristarci per quelle quasi duemila chiavi buttate per sempre e che se fossero per dei polli in batteria scatenerebbero le ire funeste degli animalisti, quelli che anni fa, di fronte all’ipotesi che riaprissero il lager dell’Asinara, si preoccuparono della sorte degli aironi dell’Isola e non degli umani che ci avrebbero buttato dentro.

Ma oggi viviamo un mondo così, dove postiamo adorabili animali, parliamo di pace nel mondo e di ambiente, ci commuoviamo per le parole di Papa Francesco e ci crediamo tanto più bravi e più buoni di chi ha deviato da non consentirgli nessuna chance e nessun perdono. E se non proviamo almeno un piccolo brivido lungo la schiena tutte le volte che come ieri sentiamo che hanno buttato per sempre la chiave della cella di un nostro simile “in nome nostro” io mi siederò sempre dall’altra parte, quella del torto, e non perché, come diceva qualcuno, i posti di quelli seduti dalla parte della ragione erano tutti occupati, ma perché non ci tengo proprio a conquistarli.