Il caso
Omicidio di Alessandra Matteuzzi, un femminicidio usato per attaccare il garantismo e l’inappellabilità delle assoluzioni
Condannate a morte e anche destinate a essere usate. Il destino delle donne. Con l’ultima uccisione di Alessandra a Bologna siamo a 67 dall’inizio dell’anno, vittime di uomini che non sapendo amare, uccidono pur di non perdere la preda della loro possessività. Ma pare anche destino che questa tragedia venga sistematicamente usata, anche da qualche tecnico del diritto, per sparare contro progetti di riforma che con il cosiddetto “femminicidio” nulla hanno a che fare.
E’ già capitato nel mese di giugno durante la campagna elettorale per i referendum sulla giustizia, quando era stato preso di mira quello sulla custodia cautelare. E per tre giorni di fila il Fatto aveva gridato che era una proposta contro le donne e a favore degli stalker. Il tentativo si ripete oggi dopo che non solo Silvio Berlusconi, ma anche Carlo Nordio e soprattutto l’Unione delle Camere penali hanno rilanciato la proposta di rendere inappellabili le sentenze di assoluzione. L’allarme viene lanciato da un magistrato sulle colonne del Manifesto proprio nei giorni dell’ennesima violenza, un fatto particolarmente angosciante perché la donna uccisa aveva denunciato e stra-denunciato quel ragazzo violento che la perseguitava, e aveva chiesto aiuto a familiari, amici e vicini, perché le segnalassero qualunque avvicinamento dell’uomo alla sua casa.
Invece lui era riuscito a correre dalla Sicilia fino a Bologna, pare pazzo di gelosia, per mettere fine alla vita dell’ex fidanzata. Clima di tragedia, dunque. Nel quale ben vengano parole di proposte concrete come quelle del presidente vicario del tribunale di Milano Fabio Roia che, intervistato da Repubblica, invoca “più magistrati e agenti esperti che lavorino a tempo pieno sui femminicidi”. Certo, bisognerebbe avere più personale nei tribunali e nelle questure, e anche avere maggiore specializzazione. Ma se poi si parla con le responsabili dei Centri antiviolenza, che ogni anno accolgono circa 20.000 donne e conoscono i loro problemi e soprattutto le loro difficoltà, il discorso cambia. La paura a lasciare il marito, prima di tutto. La scarsa consapevolezza del salto veloce che la violenza compie nel passare dallo schiaffo alle botte e poi all’omicidio, soprattutto.
Ma anche, e qui dovrebbero subentrare la specializzazione e la sensibilità di chi raccoglie le loro denunce, il fatto che troppo spesso le donne non vengono credute, il loro grido di aiuto viene sottovalutato. E che strumenti banali ma più utili ancora del carcere come i braccialetti elettronici non vengono quasi mai usati. La scarsa valutazione del rischio da parte delle istituzioni, nonostante una riforma come quella del “Codice rosso” e il tentativo di andare oltre da parte della ministra Cartabia, ecco il problema. Ma c’è, a quanto pare, uno scarso uso delle misure cautelari come il divieto di avvicinamento o l’allontanamento dalla casa familiare, e soprattutto sono scarsi i controlli, che sarebbero molto facili se si usassero i braccialetti elettronici.
Invece si passa dalla sottovalutazione del rischio alla richiesta di più carcere preventivo, come è capitato durante la campagna elettorale sui referendum. Ma anche ora sta succedendo. E stupisce il fatto che sia un giudice di Milano, Fabrizio Filice, dell’esecutivo di Magistratura democratica e anche membro della commissione pari opportunità dell’ Anm, a sfruttare l’occasione dell’ultima tragedia che ha colpito una donna, per scagliarsi contro la proposta di rendere inappellabile il ricorso del pm contro l’assoluzione, oltre ogni ragionevole dubbio, dell’imputato nel processo di primo grado. Sopra il titolo “L’assurda inappellabilità di quelle assoluzioni”, sul Manifesto, l’occhiello è piuttosto esplicito, “Violenza sessuale”. Ancora una volta così si accomunano i fatti tragici che hanno colpito queste donne, violentate o uccise, alla contrapposizione politica.
Sì, politica, perché la premessa per polemizzare con l’Unione Camere penali, che si è sempre dichiarata d’accordo con la proposta, che era stata già oggetto della “legge Pecorella” poi modificata nella sostanza dalla Corte Costituzionale, non è certo tecnico-giuridica. Scrive infatti il gip milanese che “è un tema controverso”. Ma aggiunge che occorre “abbandonare il linguaggio fazioso di chi ha in odio il controllo giudiziario, ritiene il processo una persecuzione e l’affermazione dei diritti una posa della sinistra”. Dopo di che, non senza aver sottolineato che la proposta ha il sapore di un tentativo di vittoria “politica” contro la magistratura (chissà con chi ce l’ha), parte all’attacco delle Camere penali, accusandole di chiudere gli occhi nei confronti delle vittime.
Dando una visione dei processi per violenza sessuale, domestica e di genere, che pare ferma alla sub-cultura maschile, di avvocati e magistrati, dei tempi del famoso “processo per stupro” di cinquant’anni fa. E ferma anche ai tempi in cui si assolveva più che condannare. Se è vero che sia capitato che la donna non sia stata creduta dopo aver denunciato la violenza, o che il pm non abbia raccolto sufficienti prove per dimostrarlo, questo fa parte delle dinamiche del processo. Ed è veramente strumentale ritenere che l’imputato assolto oltre ogni ragionevole dubbio, come dice la Costituzione, debba essere trascinato in appello a ogni costo, dando per scontato che nei processi di violenza sessuale non esistano mai innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca. No, non è proprio questo il modo di affrontare il dramma delle donne vittime di violenza. Questo uso strumentale e demagogico delle tragedie lasciamolo a Travaglio, non è degno di chi indossa la toga.
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