La sua barba è sempre più lunga e non la taglierà fino a quando non avrà giustizia. Quella che manca da trentuno anni. Vincenzo Agostino pretende verità sull’omicidio del figlio poliziotto Nino e della nuora incinta Ida Castelluccio, freddati da due sicari, ancora senza nome, il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Un fatto di sangue – commesso nell’estate dei veleni palermitani dopo le lettere del Corvo e dopo il fallito attentato all’Addaura al giudice Giovanni Falcone – pieno zeppo di buchi neri, omissioni, depistaggi che hanno inquinato la verità. In un’odissea giudiziaria che continua ad essere un incubo tra fascicoli aperti, poi archiviati e nuovamente riaperti.

L’ultimo spiraglio dal quale sembra filtrare una flebile luce prova ad accenderlo la Procura generale di Palermo guidata da Roberto Scarpinato. Dopo trentuno anni di indagini, una richiesta d’archiviazione della procura (a cui la famiglia Agostino si era opposta tramite il legale Fabio Repici), un provvedimento del gip che ha rigettato due richieste d’arresto e dopo due avocazioni di cui una, la prima, è stata annullata dalla Cassazione, l’inchiesta sul delitto Agostino arriva in un’aula di un’udienza preliminare.

Pochi giorni fa la procura generale del capoluogo siciliano ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini, preludio alla richiesta di rinvio a giudizio, ai boss Gaetano Scotto (nuovamente arrestato tre giorni fa nell’ambito dell’operazione della Dia “White Shark” con l’accusa di associazione mafiosa) e Nino Madonia e al compagno di pesca – all’epoca sedicenne – di Nino Agostino, Francesco Paolo Rizzuto, indagato per favoreggiamento aggravato. Scotto, considerato da molti collaboratori di giustizia l’anello di collegamento tra mafia e servizi segreti, ha sempre negato di appartenere alla mafia e di avere avuto un ruolo nel delitto del poliziotto palermitano. Ma la chiusura delle indagini da parte della procura generale e il nuovo arresto del presunto boss dell’Arenella, potrebbero fornire nuovi elementi su un duplice omicidio ancora senza colpevoli. Perché fu ucciso Agostino? E come mai la strada verso un processo è così tortuosa?

Secondo quanto emerso dalle indagini finora effettuate, Agostino sarebbe stato impegnato nella ricerca dei latitanti e probabilmente indagava sul fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone. Dopo l’omicidio, per il quale il capo della Mobile Arnaldo La Barbera batté la pista passionale, il secondo tentativo di depistaggio proseguì quando furono fatte sparire le carte di Agostino che il poliziotto conservava nell’armadio di casa sua. Il padre, Vincenzo, ha sempre raccontato che «mio figlio nel portafogli portava un biglietto in cui era scritto di andare a cercare dentro il suo armadio nel caso in cui gli fosse successo qualcosa». Gli appunti, però, sparirono.

Nella sua casa di Altofonte ad arrivare per primo fu un poliziotto, Guido Paolilli, che, parlando con il figlio, inconsapevole di essere intercettato, ammise, di avere fatto “sparire una freca di carte”. Indagato per favoreggiamento, la sua posizione è stata archiviata per prescrizione. A Paolilli, però, Vincenzo Agostino ha chiesto un risarcimento di 50mila euro.

Alle numerose anomalie investigative che hanno allontanato la verità si è aggiunto anche altro: Vincenzo Agostino ha dovuto fare i conti, in un confronto all’americana, con Giovanni Aiello, ex agente di polizia ritenuto vicino ai servizi segreti e conosciuto anche come “faccia da mostro” per una cicatrice sul volto. Morto nel 2017, Aiello era tra gli indagati del delitto Agostino. Secondo l’accusa avrebbe aiutato i due presunti killer, Madonia e Scotto, a fuggire. Vincenzo Agostino, durante il confronto nell’aula bunker dell’Ucciardone, lo aveva riconosciuto tra le lacrime e le urla di dolore come l’uomo che, una settimana prima dell’omicidio, si era presentato a casa sua per chiedere del figlio. Adesso un nuovo processo rinfocola le speranze: «Aspetto giustizia da trentuno anni – dichiara Vincenzo Agostino – nonostante tutto ho ancora fiducia nello Stato. Spero di tagliare presto la mia barba».