L'anniversario della morte dell'anarchico
Omicidio Pinelli, parla la figlia Claudia: “Lo Stato ha ucciso mio padre e non ci ha mai detto perché”
Dal 9 dicembre è in libreria Pino, vita accidentale di un anarchico di Silvia Pinelli e Claudia Pinelli, Niccolò Volpati e Claudia Cipriani (Milieu Edizioni). È la storia di Giuseppe Pinelli raccontata dalle figlie, Claudia e Silvia, in un docu-romanzo grafico. Riprendendo il lavoro che aveva portato alla realizzazione dell’omonimo docufilm animato (regia di Claudia Cipriani e sceneggiatura di Niccolò Volpati), gli autori raccontano in maniera inedita, attraverso immagini e fotografie – tra le quali compaiono scatti originali di Uliano Lucas -, una storia intricata e opaca, che non è mai stata dimenticata: la stessa che Dario Fo scelse di narrare in Morte accidentale di un anarchico.
Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre ’69, il corpo di “Pino” precipitò da una finestra della Questura di Milano. Aveva 41 anni, era stato fermato in seguito alle prime indagini sulla strage di Piazza Fontana che era avvenuta tre giorni prima: la polizia aveva deciso immediatamente di seguire la pista anarchica. Difficile dire se fu un abbaglio o un depistaggio. Comunque la pista anarchica si rivelò quasi immediatamente una falsa pista anche se poi fu tenuta viva per altri tre anni. Furono fermati diversi anarchici di Milano e di Roma. I più noti erano Pino Pinelli e Pietro Valpreda. Pinelli, dopo o durante un durissimo interrogatorio, volò dalla finestra dell’ufficio della questura di Milano e morì. La sua sua morte venne fatta passare per un suicidio, e quindi per una confessione. Ma prima un gruppo di giornalisti (tra i quali Camilla Cederna e Gianpaolo Pansa) e di militanti politici di sinistra, poi uno schieramento molto più ampio contestarono questa tesi e sostennero che Pinelli era stato gettato dalla finestra. Alla fine la magistratura trovò una mediazione. Nell’ ultima e definitiva sentenza su quella morte escluse il suicidio ma non prese in considerazione l’omicidio: parlò di «malore attivo». Nessuno ha mai capito bene cosa fosse un malore attivo. La sentenza fu firmata da Gherardo D’Ambrosio, diventato poi famosissimo quando da Procuratore aggiunto guidò, quasi 25 anni più tardi, il pool “mani pulite”.
La famiglia di Pino Pinelli non ha mai creduto al malore attivo e per questo non ha mai smesso di cercare la verità. Solo a quarant’anni dalla morte, nel Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dichiarò: «Rispetto e omaggio per la figura di un innocente Giuseppe Pinelli che fu vittima due volte. Prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine». Pinelli diventava così «la diciottesima vittima della strage di Piazza Fontana». Ne parliamo con Claudia Pinelli.
Come mai questo libro ora e con questo stile della graphic novel?
Con questa opera vogliamo arrivare anche ad un pubblico più giovane ma in generale a tutte le persone che non conoscono la vicenda di nostro padre. Però attenzione: il fumetto non vuole semplificare la storia. È chiaro che non può esserci tutto quello che è avvenuto in questi 52 anni, però può suscitare una curiosità nel lettore che potrebbe essere spinto ad approfondire. Dopo oltre mezzo secolo questa può diventare una storia di tutti, che non significa condivisa da tutti, ma conosciuta da tutti per continuare a parlarne.
Nella prefazione scrivete: «La verità non ha bisogno di martiri, di santi e tantomeno di eroi. Né di commozione, della facile lacrima che lascia tutto immutato, ma dell’empatia che susciti una sana indignazione per quello che è stato, per quello che non si è voluto affrontare».
Vorremmo che le persone prendessero coscienza di quello che è accaduto al nostro Paese in quegli anni. La verità su Giuseppe Pinelli è una verità sul Paese, che deve interessare tutti. Magari qualcuno si chiederà cosa non siamo stati capaci di affrontare in tutti questi lunghi anni. Conoscere vuol dire anche assumersi la responsabilità del cambiamento, significa sviluppare una capacità critica che non dovrebbe farci voltare dall’altra parte, ma pretendere verità.
Nel libro mostrate un vecchio ritaglio di giornale in cui c’è una intervista a sua madre che dice «voglio solo scoprire la verità». E aggiungete: «nessuno della magistratura ha mai indagato il questore, il commissario, il capo della digos e i poliziotti che per tanto tempo hanno dichiarato il falso? Per loro non esiste il reato di calunnia e diffamazione? I presenti in questura quella notte hanno mentito. Tutti».
Tutte le denunce presentate dalla mia famiglia sono state archiviate. Allora come oggi devi essere molto forte per resistere, perché nel momento in cui una persona muore mentre è nelle mani dello Stato non saranno le istituzioni a cercare verità e giustizia. Lo Stato non indaga su se stesso, ma si autoassolve. Sei tu che come famiglia devi metterti in gioco, devi riuscire ad andare avanti nonostante quello che ti verrà riversato addosso, nonostante i tentativi di colpevolizzarti. Dovrai sopportare emotivamente, e anche economicamente, per periti e avvocati, un onere che non tutti sono in grado di reggere. All’inizio poche erano le persone a noi solidali, poi sono cresciute col tempo. Ci sono rimaste accanto e mia madre, Licia, è diventata sempre più forte, sempre più ‘roccia’ come dico spesso. Non è assolutamente facile, quando sei una persona come mia madre che credeva nella giustizia, e che questa fosse uguale per tutti, doversi scontrare con un muro di gomma. Ma non ti fermi, vai avanti e combatti per arrivare ad una verità storica, grazie anche all’impegno di tanti che si sono attivati con noi: giornalisti, avvocati, anche magistrati, i familiari delle vittime di Piazza Fontana che hanno perseverato nel chiedere la verità. Però gli storici si basano sulle sentenze: e allora cosa rimarrà della storia di Giuseppe Pinelli?
L’ultima e definitiva sentenza sulla morte di Pino parla di «malore attivo». Stressato dalla situazione, suo padre si sarebbe sentito male ma invece di accasciarsi a terra è precipitato dalla finestra.
Quando ho parlato per l’unica volta con il giudice Gerardo D’Ambrosio mi disse «ho fatto quello che ho potuto». Non si doveva arrivare a parlare della morte di Giuseppe Pinelli in un’aula di Tribunale, era una vicenda da dimenticare.
Facciamo un passo indietro: nel libro raccontate che ad un certo punto dei fotografi e dei giornalisti bussarono alla vostra porta e vi dissero che suo padre era caduto da una finestra. Sua madre prese il telefono e chiamò la questura. Rispose il commissario Calabresi. Licia gli chiese: «Perché non mi avete avvisato?» Si sentì rispondere: «Ma sa signora, abbiamo tanto da fare…». Un ritratto di una persona fredda.
Mia madre ha sempre narrato questo episodio e anche adesso che ha 93 anni lo ricorda benissimo. Inoltre è quanto Calabresi ha testimoniato in Tribunale. Non so che pensiero si possa avere sul commissario Calabresi. Quello che posso dire è che era un funzionario di polizia ed era all’interno di quel sistema. Se lei legge il libro Pinelli: una finestra sulla strage di Camilla Cederna, che è una delle giornaliste che arriva alla nostra porta e che assiste alla conferenza stampa della Questura quella famosa notte, vi troverà scritto che i primi dubbi le vengono proprio per il clima che c’era all’interno di quella Questura. Non interessava a nessuno che fosse morta una persona, interessava solo che la loro pista trovasse in qualche modo una conferma. Io non posso esprimere un giudizio sul commissario Calabresi perché non l’ho mai conosciuto. Quando mio padre è morto ero una bambina di 8 anni. Non mi sento di mettere aggettivi inutili su di lui, ma allo stesso tempo penso che dopo 52 anni possiamo non avere più paura della verità. Potremmo considerare che ci furono delle responsabilità in quello che avvenne quella notte in Questura.
Qual è la vostra verità su quella notte? In quella stanza c’era il commissario Calabresi secondo voi?
Io non ero in Questura quella notte e non so cosa sia avvenuto. Altri avrebbero dovuto dare delle risposte. Secondo il giudice D’Ambrosio, nel momento in cui mio padre è precipitato, il commissario Calabresi non era presente in quella stanza. Un testimone, tuttavia, ha affermato sempre il contrario, ossia che il commissario non è mai uscito da quella stanza. È ancora vivo, si chiama Pasquale Valitutti ma non è mai stato ascoltato dal giudice D’Ambrosio. Io quello che posso dirle è che mio padre è stato fermato, che ha seguito con il suo motorino la volante della polizia e che poi è stato ucciso nel momento in cui è entrato in quella Questura e si è visto privato di tutti i suoi diritti. Ha subìto un fermo illegale che è durato più dei limiti consentiti dalla legge: e nessuno è stato chiamato a rispondere neanche di questo. Tutti i funzionari presenti in quella stanza quella notte hanno mentito ma non gli è successo nulla.
Dopo tanti anni a chi può far paura la verità sulla morte di suo padre?
Sicuramente è una storia scomoda. Forse c’è qualcuno ancora da coprire. Dopo tutto questo tempo sarebbe giusto che qualcuno si liberasse la coscienza. Lo stesso ex Presidente Napolitano ha pronunciato delle parole importanti perché ha parlato di Giuseppe Pinelli, vittima due volte: «Prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine».
Dopo queste dichiarazioni si aspettava una svolta?
Ci saremmo aspettati un proseguimento nella ricerca della verità e un riconoscimento di responsabilità da parte delle Istituzioni non solo sulla morte di mio padre, ma per tutto quello che è successo in tutta quella stagione della strategia della tensione. All’interno della Questura quella notte, dai documenti che sono stati ritrovati e resi accessibili, è emerso che c’erano appartenenti ai servizi segreti. Noi siamo ancora qui, senza nessuna voglia di vendetta, a chiedere la verità per noi e per il Paese.
Secondo Lei cercavano non il colpevole ma un colpevole?
Può darsi, oppure volevano coprire i veri responsabili. Mentre la polizia a Milano metteva nel mirino gli anarchici, da Treviso arrivava la prima segnalazione sui progetti di attentati del libraio neofascista Giovanni Ventura, grazie alla testimonianza dell’insegnante di francese Guido Lorenzon. Volutamente questo filone investigativo si è ignorato e sono continuate le accuse verso gli anarchici.
Vuole rivolgere un appello a qualcuno?
No, non è nel mio stile chiedere qualcosa a qualcuno. La giustizia dovrebbe essere un atto dovuto ma nel nostro Paese non lo è.
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