Il caso
Omicidio Rocchelli, 24 anni al colpevole “perfetto” ma con prove improbabili…

Quando lo hanno condannato a ventiquattro anni di prigione, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, che era costituita parte civile, ha dichiarato: «Prendiamo atto con soddisfazione che la Corte d’Assiste di Pavia ha riconosciuto che Andrea Rocchelli e Andrej Mironov sono stati uccisi mentre tentavano di ‘illuminare’ una guerra cancellata». Ma il processo a carico di Vitaly Markiv non doveva accertare che i due fossero stati uccisi, né i motivi per cui qualcuno li ha uccisi: doveva accertare se davvero uno dei due, il giornalista Rocchelli, fosse veramente stato ucciso dall’imputato. Né tanto meno quel processo aveva il compito di accertare «come, attraverso il loro assassinio, siano stati colpiti anche l’articolo 21 della Costituzione e il diritto dei cittadini a essere informati» (era ancora il sindacato dei giornalisti a reclamare questo strano ruolo della giustizia penale in un caso di omicidio).
All’epoca dei fatti (2014) Markiv era un soldato di basso rango impegnato nel conflitto tra i separatisti filo-russi e l’esercito regolare ucraino. Titolare di doppia cittadinanza – ucraina e italiana – Markiv militava dalla parte ucraina. In posizione eminente nel processo italiano non erano tuttavia i comportamenti di Markiv connessi ai fatti di causa, cioè la morte dei due giornalisti sotto il fuoco non si sa bene di chi, ma il “personaggio” di Markiv: cioè un giovane cui, fondatamente o no, si imputavano propensioni ultranazionaliste e simpatie naziste identificate nella detenzione di qualche fotografia con svastiche e roba simile, nonché in non meglio documentate manifestazioni di solidarietà a lui rivolte da formazioni di destra. Tutte cose buone alla confezione di un ritratto da impallinare nel facile consenso di dichiarazioni come quelle dei sindacalisti della stampa, ma decisamente insufficienti, e anzi completamente irrilevanti, per provare i fatti attribuiti alla responsabilità di Markiv: cioè, da soldato semplice, di aver sparato o di aver ordinato il fuoco contro quei giornalisti, dopo averli identificati come tali a più di un chilometro e mezzo di distanza.
Il tutto senza che sia mai stato disposto un sopralluogo nella zona in cui il fatto è avvenuto, senza che sia stato accertato se il fuoco fosse di provenienza ucraina (le testimonianze in punto sono risultate confuse e contraddittorie), senza, appunto, che si sia verificato come Markiv potesse aver identificato da quella distanza i giornalisti, senza che fosse provata in qualsiasi modo la partecipazione attiva di Markiv alla regia del fuoco e senza che fosse spiegato in modo appagante come essa potesse essere assunta da chi, come Markiv, occupava una posizione gerarchica subordinata. Queste sono solo alcune delle tante incongruenze (è un eufemismo) che emergono dalla lettura della sentenza pavese, che ora è rimessa all’esame della Corte di Assise di Appello di Milano.
Che il processo fosse – e speriamo non sia più – un modo per trovare il colpevole adatto è una sensazione difficile da allontanare davanti alla scena di imputazioni che impiccano quel militare alle sue presunte predilezioni ideologiche, tanto più quando si pretende che la vittima non sia un poveretto che ha perso la vita ma, abbastanza oscenamente, il diritto all’informazione dei cittadini fatto valere dalla stampa federata. Il puro fatto che sia Raffaele Della Valle, che difese Enzo Tortora, a rappresentare le ragioni dell’imputato, non è sufficiente a dir nulla contro la bontà della sentenza di primo grado, così come non basta il buon nome di Giuliano Pisapia, che assiste la burocrazia sindacale giornalistica, a riabilitare le dichiarazioni della parte civile, francamente inopportune, che abbiamo riportato sopra.
È certo tuttavia che il caso di una tragedia indubitabilmente avvenuta in un lontano scenario di guerra, in condizioni di confusione e promiscuità nei movimenti militari, in un contesto di rischio e fortuità imparagonabile a quello di una normale realtà sociale, è precipitato qui da noi in un processo con prove improbabili e pesantemente condizionato da sociologismi e vagheggiamenti di giustizia sociale decisamente incompatibili con il principio per cui non si condanna nessuno se non c’è una responsabilità accertata oltre ogni ragionevole dubbio. E la responsabilità non può risiedere né nel possesso di un cimelio nazista, che peraltro l’imputato giustifica, né nella militanza presso una parte che non piace al giudice e a chi si compiace del suo verdetto. Se ci vuole un processo, deve essere diverso rispetto a quello che c’è stato.
© Riproduzione riservata