L’aria di guerra feroce dei nostri giorni ravviva i sensi di colpa sia antichi che preventivi. Il film “Oppenheimer”, dal nome del più noto tra i fisici che costruirono la prima atomica, ha come oggetto non la bomba ma il senso di colpa americano a nome dell’Occidente, per aver bruciato Hiroshima e Nagasaki, costringendo il Giappone alla resa al prezzo mostruoso di almeno duecentomila vittime.

Lo fa separando in segmenti la vita del protagonista secondo i canoni del grande cinema americano partendo e seguendo l’adolescenza bizzarra, la gioventù scapestrata e geniale che introduce l’invenzione diabolica e il tormento finale. Solo cenni sulle ragioni che spinsero il presidente Harry Truman ad usare la bomba, basate proprio sulla drastica riduzione del numero delle vittime. Le battaglie nel Pacifico erano mattatoi, i bombardamenti incendiari su Tokyo che provocarono il triplo delle vittime atomiche, l’attacco con bombe progettate per liquefare i corpi umani a Dresda.

Ma il grumo del “guilty feeling” originale e incancellabile, resta legato alla sola prima bomba, trascurando il fatto che gli americani arrivarono semplicemente primi in una gara in cui competevano sia l’Unione Sovietica che la Germania nazista, tutti a un passo della loro bomba. Stalin non restò affatto sbalordito quando seppe di Hiroshima, perché i fisici sovietici erano già in dirittura d’arrivo. Semmai, gli americani peccarono di rabbiosa frustrazione quando giustiziarono i coniugi Rosenberg, che avevano fornito ai sovietici dati utili per far brillare in anticipo la loro bomba atomica.

Il film di Christopher Nolan è dunque l’esibizione di una appropriazione indebita del rimorso universale, rendendolo narcisisticamente soltanto americano. Lo spettacolo è grandioso e a suo modo edificante, ma fondato su un falso: quello secondo cui se Oppenheimer e la sua banda di fisici non avessero fatto esplodere il primo ordigno nel deserto del New Mexico, l’umanità sarebbe rimasta esente e innocente dal peccato nucleare.

Paolo Guzzanti

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