Il Consiglio dei Ministri ha da poco approvato il testo dello schema di decreto legislativo di attuazione della delega per l’integrazione delle norme nazionali di recepimento della direttiva UE per il rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza. La novella vieta la pubblicazione del testo delle “ordinanze di custodia cautelare” fino alla conclusione delle indagini, o fino al termine dell’udienza preliminare, ferma la possibilità di pubblicarne il contenuto. In sostanza non si può pubblicare il “virgolettato”, ma si può descrivere ciò che l’ordinanza contiene.

Il ritorno in passato

Una prima annotazione: non si tratta di una novità, ma di un ritorno al passato. Dall’entrata in vigore del codice “Vassalli”, al settembre 2020, data di entrata in vigore della riforma “Orlando”, e dunque per oltre trent’anni, l’art. 114 dello stesso codice ha vietato la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino alla conclusione del processo. Una perplessità: il divieto di pubblicazione delle “ordinanze di custodia cautelare” (carcere, domiciliari, luogo di cura), potrà essere inteso nel senso che tutte le altre ordinanze cautelari, ovvero quelle coercitive non custodiali e quelle interdittive (il 43% del totale nell’ultimo quadriennio), restano pubblicabili? C’è a augurarsi di no, ma vedremo.

Il processo mediatico

La pubblicazione era e sarà sanzionata da un reato contravvenzionale oblazionabile con il versamento di 129 euro e nel periodo della sua vigenza, il divieto è stato sistematicamente violato. La sua reintroduzione si illumina di una nuova luce, nel senso che mira a contenere i devastanti effetti del “processo mediatico” (prima a tutelare la verginità cognitiva del giudice) e a preservare l’indagato, che fino a sentenza definitiva è assistito dalla presunzione di innocenza, dal sommario giudizio della piazza e va, dunque, accolta con favore per il principio che vuole affermare: prima il processo e poi il giudizio. La pubblicazione del “virgolettato” delle parti più scabrose della misura, delle intercettazioni e delle dichiarazioni raccolte in indagine maggiormente accusatorie, rendono certamente più efficace l’esposizione alla pubblica gogna.

Il guadagno

Non è il giornalista che parla, ma il giudice, attraverso gli stralci del suo provvedimento e dunque, chi può mettere in discussione che quanto riportato sia vero? In realtà è una verità di parte dato che il giudice si è espresso solo sugli atti di indagine e sulle richieste del pm, senza che l’interessato abbia avuto modo di difendersi, ma il lettore (telespettatore) non lo percepisce.

La relazione annuale del Governo al Parlamento sull’applicazione misure cautelari personali e sull’ingiusta detenzione ci dice che ottomila persone all’anno, sottoposte a misure cautelari personali coercitive, vengono assolte o prosciolte a vario titolo. I numeri sono testardi e spesso anche impietosi. Evidentemente per questi ottomila innocenti l’addebito penale descritto nell’ordinanza non era vero.

L’efficacia dello spettacolo

Nel frattempo la “giustizia mediatica” ha però fatto il suo corso, dando luogo ad uno spettacolo che spesso, giustificato ipocritamente dalla finalità informare il cittadino, utilizza il pretesto dell’indagine per inseguire l’audience televisivo e vendere i giornali e dunque, in definitiva, per guadagnare, secondo logiche di mercato che poco hanno a che fare con il fondamentale principio della libertà di stampa. Va in scena l’infotainment, che non tollera la presunzione di innocenza e pronuncia in breve una sentenza definitiva di colpevolezza, che non sarà emendata neppure dall’assoluzione giunta dopo anni di processo.
L’ostensione di stralci della misura cautelare (intercettazioni, dichiarazioni, valutazioni del magistrato) è funzionale, appunto, all’efficacia dello spettacolo. Le critiche fortemente agitate da chi mette in scena questo rito truculento e spietato ne sono la prova. Si dice: “bavaglio alla stampa”; in un sistema democratico i poteri devono essere controllati attraverso l’informazione libera e primo tra questi il potere giudiziario, nell’interesse dei cittadini e ancor più nell’interesse di chi è sottoposto alla misura cautelare. L’ordinanza però è e resta conoscibile, non è segreta, se ne può riferire il contenuto e si può esercitare ogni genere di critica.
Che poi verrebbe da chiedersi: dove sono tutti questi giornalisti che esercitano un severo controllo dell’operato delle Procure? La desolante constatazione è che l’informazione funge da megafono, non da censore, del potere dell’accusa, perché, appunto, è questo il prodotto che si vende meglio. Altra critica, ancor più curiosa: vietando la pubblicazione della misura cautelare si impone al cronista di fare un riassunto, col rischio di rendere in modo meno affidabile il contenuto dell’atto rispetto a quanto avverrebbe prendendone conoscenza diretta. Avete mai visto un’ordinanza pubblicata integralmente? Non credo. Servirebbero giornali di alcune centinaia di pagine (nella migliore delle ipotesi), o trasmissioni di ore passate a darne lettura. E poi: chi avrebbe tempo e voglia di leggerla?
Il problema, ovviamente, non è solo italiano. In Francia si è provato ad inserire pene molto elevate per la diffusione a mezzo stampa di atti giudiziari, con statistiche che riferiscono però in concreto di pochi procedimenti, pur a fronte di sistematiche violazioni e alterne fortune nei giudizi che vedono contrapposti Stato e giornalisti davanti alla CEDU. In Germania si è pensato ad un sistema ristoratore nei confronti della persona sottoposta al processo mediatico, con la previsione di sconti pena, perché la gogna è già una pena (ingiusta anche per il colpevole); ma nessun conforto può essere dato, ovviamente, per questa via a chi sia stato assolto.

Ben venga, dunque, il divieto di pubblicazione. Il principio è senza dubbio giusto, ma non illudiamoci, la strada che conduce alla civiltà dell’informazione è lunga e nessuno ha ancora inventato la ricetta giusta.

Rinaldo Romanelli

Autore

Avvocato, segretario Nazionale UCPI