L'intervista
Orsina: “La politica bloccata da diritto e mercato, ci rimangono solo Orbán e Trump, leader populisti”
Il politologo Luiss esamina le ragioni che hanno portato all’indebolimento della politica dopo che ha “invocato un sistema di vincoli e di limiti che l’hanno defraudata”. Democrature e autoritarismi invece tengono il passo
Il professor Giovanni Orsina, ordinario di storia contemporanea e Direttore del dipartimento di scienze politiche alla LUISS Guido Carli di Roma, è tra i politologi liberali che non si arrendono davanti alla scomparsa della leadership in politica. E forse proprio per questo ne vogliono indicare con chiarezza le cause.
Ci sono leader e non leader. Quasi nessuno tra i governanti europei, per esempio, lo è…
«Lo dico con una battuta provocatoria: i leader di oggi sono tutti populisti. Ad esempio, oggi politica in Europa la sta facendo soprattutto Victor Orbán. Perché non si può negare che sia un leader uno che diventa presidente di turno dell’UE e in rapida successione incontra Zelensky, Putin, Xi Jin-Ping e Trump, intanto smonta due gruppi parlamentari europei, ne fonda un terzo e lo piazza al terzo posto fra i maggiori gruppi, in pochi giorni… E tutto questo essendo il primo ministro di un paese piccolo come l’Ungheria. La sua non è certo la mia linea politica, ma riconosco che fa politica».
Perché i democratici liberali non riescono più a esprimere grandi leadership politiche, mentre i grandi leader – a prescindere dal merito – sono Orbán, Putin, Erdogan, Trump?
«Hanno la meglio i leader delle democrature perché i sistemi autoritari sono molto meno vincolati dalle regole. Ma anche nelle democrazie, come in quella americana, le leadership più forti finiscono per essere accusate di essere antidemocratiche, come accade a Trump. Il tema è a mio parere quanto le democrazie liberali abbiano perduto il senso della politica, e quindi il senso della leadership come costruzione creativa di politica».
La politica ha abdicato, ha rinunciato a se stessa, al proprio ruolo di driver?
«Direi di sì. Viviamo in un mondo fortemente innervato dal diritto e dal mercato. Basti pensare a come, qualche tempo fa, si discuteva della questione migratoria in Italia: quasi esclusivamente in termini di rispetto delle regole nazionali e internazionali. Ma se facciamo gestire i processi dal diritto, o dal mercato, non li facciamo gestire dalla politica. E allora avremo bisogno di un governatore di banca centrale, o di un giudice, ma non di un leader politico».
Possiamo vivere nel draghismo altri cinquant’anni?
«Se le decisioni vere non vengono prese in sede politica, ma in sede tecnica, assolutamente sì».
Addirittura?
«Il politico non ha neanche più uno spazio per muoversi. I diritti vengono presentati come un dato oggettivo, sancito dalla Costituzione. Le politiche monetarie le fanno le banche centrali. Le decisioni economiche sono imposte dai mercati. Le corti internazionali ti dicono che non puoi fermare i migranti… Solo ribellandosi a questi vincoli, solo se la politica si ribella e si sa riappropriare dei suoi spazi, può riemergere».
La politica si deve riappropriare dei suoi spazi?
«Se pensiamo che la dimensione politica sia insopprimibile, allora sì, dovrebbe. Ma l’unico modo che ha, per riappropriarsene, è spezzando i vincoli giuridici ed economici che la limitano».
Le dittature della maggioranza sono quelle in cui ci si sottrae ai checks and balances…
«Esatto, e questo è il problema: spezzare i vincoli giuridici ed economici che limitano la politica significa muoversi verso le democrazie illiberali di cui parla Orbán. Questo è il paradosso che viviamo oggi: la leadership politica oggi può affermarsi soltanto se si ribella al sistema delle regole. Ovvero, e torniamo alla provocazione con la quale abbiamo aperto, l’unica leadership politica possibile è populista».
Scusi professore, ma il sistema delle regole lo ha voluto la politica.
«L’ho scritto in un libro del 2018. Grosso modo dagli anni Settanta in poi la politica non solo accetta i vincoli, ma li invoca. Si avvia un meccanismo che, anno dopo anno, limita sempre di più lo spazio della politica, e quindi anche della leadership politica. I leader diventano esecutori, amministratori che devono destreggiarsi all’interno di un percorso prestabilito».
In questo contesto, parlando più di personalità carismatiche che di statisti autorevoli, perfino Donald Trump emerge con forza come leader gigantesco.
«Trump è un leader di grande efficacia, uno straordinario catalizzatore di emozioni, un grande comunicatore. È un animale da campagna elettorale. Non so se sia un grande politico, considerando anche la dimensione del governo, ma di certo è una personalità politica di grande forza. Il mio, sia chiaro, è un giudizio “tecnico”, non di valore».
Dopo l’attentato?
Sarà ancora più forte. Ha un’aura di invincibilità, quella foto col pugno chiuso e la bandiera Usa dietro è già iconica. E poi, adesso i suoi avversari dovranno attenuare molto gli attacchi. “A quest’uomo non dovrebbe essere dato il permesso di stare dietro a un microfono”, aveva detto Kamala Harris pochi minuti prima di quello sparo. Ora non si potrà più parlare così. I democratici dovranno ripensare la propria campagna.
Come si può tornare a fare politica?
«Riportando il potere decisionale a coincidere con i confini della legittimazione democratica. Il che vuol dire, o riportando il potere all’interno degli stati nazionali, o democratizzando l’Unione Europea. In bocca al lupo, in entrambi i casi».
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