«Meloni arriva al voto europeo forte, grazie soprattutto alla capacità di essere bifronte». Giovanni Orsina, storico dell’università LUISS di Roma, ci aiuta a interpretare il quadro politico in vista delle elezioni europee di giugno. L’attenzione cade naturalmente su Giorgia Meloni che in settimana ha fissato l’asticella del successo per il suo partito, Fratelli d’Italia, al 26 per cento, la stessa cifra che nel 2022 l’ha portata a Palazzo Chigi. Sfida alla scaramanzia oppure il segno che la Presidente del Consiglio si è fatta bene i conti? In effetti dalla recente rilevazione Ipsos arrivano più che altro conferme di una traiettoria che, a destra come a sinistra, è in corso da tempo. Si sa che gli imprevisti sono sempre possibili, e tre mesi non sono pochi, ma è forse il segno inequivocabile che gli italiani considerano le europee più che altro come un’elezione nazionale di medio termine.

Professor Orsina, la svolta moderata di Meloni è stata l’arma del suo successo politico fino ad oggi, resta una strada che pagherà anche alle europee?
«Meloni arriva al voto europeo forte e questo governo in definitiva non l’ha logorata, almeno se prendiamo il dato dei sondaggi. C’è un trend chiaro: Fratelli d’Italia dopo il voto del ‘22 è salito, arrivando al 30 per cento, poi è ricalato un pochino, ma oggi resta su quei livelli di consenso. Lei prudentemente si è data quell’asticella. Ci arriva sorprendentemente bene, sia nell’opinione pubblica italiana sia in quella internazionale dove si è accreditata con una certa forza. Il progetto politico che Meloni propone oggi è lo stesso che Salvini tentò fino all’estate 2019: il partito nazionale di destra. I due si muovono nello stesso spazio, sebbene con due comunicazioni diverse, uno più aggressiva l’altra più prudente, ma non cambia la prospettiva. Semplicemente Meloni, in vista di queste elezioni europee, non si è voluta spostare da questo spazio politico. Questo ha consentito a Forza Italia di recuperare consenso al centro, costringendo Salvini a radicalizzarsi a destra, in uno spazio che però oggi si rivela molto più ristretto».

In tutta Europa i sondaggi vedono una crescita dei partiti più a destra, eppure i popolari tengono e nel nostro Paese Forza Italia cresce. È il segno che Giorgia Meloni non riesce ancora ad attrarre il voto moderato, come ha dichiarato l’ex Presidente del Senato Marcello Pera?
«Io vedo più che altro una divisione dei compiti con Forza Italia. Sebbene Meloni abbia governato dal centro con gli atti di governo, non si è voluta spostare al centro da un punto di vista politico-comunicativo. Continua a rimanere bifronte, con una prassi politica moderata e un posizionamento politico più a destra. E questo ha aperto uno spazio per Forza Italia, di cui lei tutto sommato non sembra scontenta. Ricordiamoci che l’assorbimento del consenso di Forza Italia poteva essere l’esito naturale dopo la morte di Berlusconi.  Non c’è stato, e questo perché l’idea di Meloni non è quella di riproporre il grande partito popolare e conservatore italiano. Non lo era alle politiche del ’22, come testimoniava già allora la composizione delle liste, e non credo lo sia oggi. Tra l’altro questo significherebbe, dopo il voto europeo, entrare nel PPE, e francamente non mi sembra alle viste. Il suo disegno è diverso e prevede che Fratelli di Italia rimanga a destra del PPE e gestisca il rapporto tra i popolari e la destra, come nel caso di Orban o in futuro del Rassemblement National francese».

Che spazio politico ha questo schema?
«Dipenderà dai numeri nel prossimo parlamento europeo. Le destre radicali stanno crescendo, aumentano consenso e influenza, e tenerle fuori dalla porta diventa sempre più difficile. Pensiamo all’ipotesi che Marine Le Pen vinca le elezioni presidenziali nel 2027. Come si potrebbe escludere dal gioco europeo il Presidente della Repubblica francese? Impossibile. Così come è difficile escludere Orban in una Europa a 27 basata sul principio dell’unanimità su molti temi. Quindi l’idea di qualcuno che reintegri queste forze politiche, come Meloni vuole fare accogliendo Orban nei Conservatori, ha un suo senso in astratto. Il problema è che tutta la sfera politica europea si basa sulla delegittimazione delle destre. Questo rappresenta un ostacolo che potrà essere superato soltanto se cambieranno i rapporti di forza dopo le elezioni. Se Giorgia Meloni sarà dotata di ampio consenso, allora anche tra i popolari qualcosa potrebbe cambiare».

Questo per quanto riguarda il posizionamento politico, ma la credibilità della leadership di Meloni sembra passare anche da un rinnovamento della classe dirigente del suo partito. Avere avuto un gruppo dirigente chiuso, di piena fiducia e quasi impermeabile ad ogni pluralismo, salvo casi molto limitati, è stato un elemento di forza fino ad ora. Sta diventando una debolezza?
«Più che legato alla prospettiva politica, il problema è soprattutto di qualità ed estensione della classe dirigente. A un partito con le percentuali che oggi ha Fratelli d’Italia non può bastare pescare la propria classe politica da un recinto stretto e piccolo. Per gestire uno spazio politico ampio, fatto di scadenze elettorali ma anche di nomine fondamentali, serve una classe dirigente ampia e autonoma. L’estrema diffidenza che Meloni ha dimostrato di avere è una grande virtù quando si gestisce il potere e circondarsi di persone fidate e leali è stata una grande risorsa. È chiaro però che, più passa il tempo, più questo si rivela un’arma a doppio taglio. Nessun leader può durare a lungo chiuso dentro una camera dell’eco, con persone che la pensano tutte allo stesso modo. Penso però che se ne stia accorgendo anche la stessa Giorgia Meloni e forse dopo le europee qualcosa accadrà».

Chiudiamo con uno sguardo sul dopo europee. Le due sfide a cui Meloni ha legato la sua leadership sono la svolta politica dell’UE e la riforma costituzionale. Che sviluppo avranno dopo queste elezioni? Porteranno più opportunità o più insidie per la Presidente del Consiglio?
«La partita europea è pericolosa. Non può permettersi di essere tagliata fuori dalle vicende che riguarderanno l’Unione europea nei prossimi mesi e anni e d’altra parte il gioco di equilibrismo che sta facendo è complicato. Al contrario, sulla questione della riforma costituzionale avrà un atteggiamento estremamente pragmatico ed eviterà di infilarsi nelle difficoltà che in passato hanno portato altri leader a schiantarsi su questi temi. È possibile che dopo le europee si aprirà un negoziato, anche su punti centrali della riforma su cui peraltro aperture ci sono già state».

Giulio Goria

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