Oppure. Sennò. Altrimenti. Lungo i 14 mesi dalla deportazione del 7 ottobre l’amministrazione Biden aveva a disposizione un sacco di fungibili alternative per riempire di senso, di forza e di efficacia la richiesta di liberazione degli ostaggi trattenuti, torturati e accoppati un po’ alla volta dai macellai del Sabato Nero. Chessò? Liberate gli ostaggi, oppure altro che Israele, veniamo noi a prendere loro e a eliminare voi. Liberate gli ostaggi, sennò vi facciamo tanta di quella terra bruciata intorno che vi sembrerà poco quel che vi è successo finora. Liberate gli ostaggi, altrimenti potete scordarvi non solo qualsiasi cessate il fuoco, ma qualunque soluzione diversa dal puro e semplice annientamento, uno per uno, di tutti voi.

Insomma, c’erano le formule più diverse per far passare l’unico messaggio idoneo a impedire che la richiesta di liberare gli ostaggi si risolvesse, come si è risolta per più di un anno, in un’istanza routinaria che non impegnava né intimoriva nessuno. Ma né Joe BidenKamala Harris hanno mai ritenuto di aggiungere una qualsiasi di quelle paroline alle loro intimazioni: mai quell’“oppure”, mai quel “sennò”, mai quell’“altrimenti”. E, così monche, erano meno intimazioni che implorazioni. Ebbene, l’altro giorno Donald Trump ha detto le cose su cui gli altri due – Biden e Harris – per diverse ragioni ma con identici effetti, si sono esercitati in equilibrismi e inverecondi contorcimenti anguilleschi: ha detto, Trump, che sugli ostaggi si fa chiacchiera e nient’altro; che se non saranno rilasciati prima di quando si insedierà, allora laggiù sarà l’inferno, mentre i responsabili di quei rapimenti saranno colpiti più duramente di chiunque altro sia mai stato colpito nella storia degli Stati Uniti.

Paroloni? Roba troppo forte? Dichiarazioni inadatte a chi si appresta a gestire il potere, i soldi, le armi della più grande potenza economica e militare del mondo? Avrebbero potuto dire le stesse cose in tono più composto gli altri due, il predecessore e la concorrente alla successione. Non l’hanno fatto. E non perché non fosse reperibile un fraseggio più ritenuto e meno corrusco in quelle evocazioni infernali, ma perché non ce l’avevano nelle convinzioni e nelle budella. L’amministrazione democratica non ha mai dato segno di ritenere prioritaria la liberazione degli ostaggi, lasciando più volte che la loro vicenda rimanesse sepolta tanto nei tunnel di Gaza quanto nelle bozze di accordo che, relegandoli allo scatto di vaghe ipotesi subordinate e all’attivazione di astruse fattispecie condizionate, li regalavano ai capricci aguzzini di Hamas.

Che quelle parole siano venute, ora, dal titolare di un potere in pectore anziché, quand’era necessario, da coloro che lo esercitavano in pieno, non segna neppure il merito di chi le ha pronunciate: denuncia il disdoro di quei renitenti al dovere di pronunciarle.