Prima di sparire nei budelli e nei tunnel di Gaza, i deportati del 7 ottobre erano i trofei che i miliziani e i civili palestinesi rammostravano alla folla in tripudio. Trascinati nella polvere, caricati sulle jeep e sulle moto, issati con le ossa spaccate e con le mani mozzate sui cassoni dei pick up, gli ostaggi passavano tra i gioiosi filari di spettatori che li riempivano di sputi e sassate lungo il percorso che li avrebbe condotti a quell’uscita dalla vita di prima.

La gioia del papà per la figlia morta, poi il sollievo

Il padre di una dispersa bambina di nove anni piangeva di felicità quando, dopo alcune ore, riceveva la notizia che quella sua figlia era stata uccisa. Era felice che fosse morta, che non dovesse patire il terrore e subire le violenze della prigionia nelle mani di quelle belve. Sarebbe invece tornata da lui, viva, e qualcuno avrebbe avuto lo stomaco di rimproverargli il sollievo di saperla morta mentre in realtà era “in buona salute”.

Gli ostaggi e i volantini strappati

Ovunque fuori da Israele – da New York a Roma, da Berlino a Sidney, da Parigi ad Amsterdam – l’identità degli ostaggi annichilita nelle prigioni dei macellai era vilipesa nel rituale pubblico e impunito dei volantini strappati. Ricordare l’esistenza degli ostaggi e reclamarne la liberazione erano i gesti inammissibili, l’oltraggio che contestava il diritto resistenziale dei sequestratori e poneva in discussione la giustizia calata sui rappresentanti della stirpe usurpatrice. Era scomodamente inappropriata la presenza dei manifesti con le facce degli uomini, donne e bambini rapiti quel giorno e da dimenticare da quel giorno. Per questo era lecito strapparli. Per questo era normale che i militanti di Amnesty International ritenessero di “rimuoverli e deporli nel cestino”. Perché era quello il posto buono per il carico residuo del pogrom: la spazzatura.

Sparivano poi gli ostaggi, immeritevoli di qualsiasi menzione, nelle decine di pagine dei ricorsi sudafricani dedicate alle richieste di incriminazione di Israele e alle istanze di provvedimenti cautelari a carico dell’Entità colonialista. La pace a Gaza doveva sopportare la permanenza di quei sequestrati sotto ai piedi dei parlamentari pacifisti in trasferta a Rafah, i dimostranti bardati d’arcobaleno che passeggiavano sopra i tunnel, pagati con i soldi della cooperazione internazionale, in cui languivano i rapiti. La pace di Gaza, soprattutto, doveva retribuire il diritto dei rapitori di mantenere il loro giogo aguzzino sugli ostaggi di cui distribuiva i video prima di giustiziarli. E nelle tante bozze di accordo per il cessate il fuoco, per la tregua, per il ritiro dell’esercito da Gaza doveva essere mantenuta la facoltà dei rapitori di restituire gli ostaggi a mandate, a blocchi, suddivisi in base all’età e al vigore fisico, a ricordo di qualche più antica pratica selettiva. E a nessuno veniva puzza di riconoscere a quale peso decidesse di sottoporsi il Paese che accettava la scaletta di quegli accordi, il modulo di pace che procrastinava addirittura di mesi la liberazione dei meno meritevoli. Una disponibilità ripagata con il colpo alla testa di Hersh Goldberg e degli altri cinque quando l’esercito stava per salvarli.

Gli ostaggi e i dati falsi sulla carestia

Nelle mozioni parlamentari degli ordinamenti democratici impegnati a riproporre i dati falsi sulla carestia di Gaza, così come nelle risoluzioni dell’Onu per la tutela dei civili quando sono uccisi da Israele, non quando sono usati come sacchi di sabbia dai tagliagole del 7 ottobre, il riferimento agli ostaggi ricorreva nel comma stracco che ne chiedeva la liberazione come si dice buongiorno al panettiere e distinti saluti nel reclamo alle poste. E quando qualche “esperto” delle Nazioni Unite metteva insieme la sua “Anatomia di un genocidio” – l’ennesima carrellata di notizie false e fuorvianti – spiegava che il rapporto non poteva occuparsi degli ostaggi perché essi “esulavano dall’ambito geografico” del mandato onusiano.

Il perimetro dell’investigazione, evidentemente, comprendeva le aree di Gaza in presenza dei civili uccisi da Israele, non le stesse aree in presenza degli israeliani torturati e uccisi dai terroristi palestinesi.
Quanti ancora siano in vita non si sa. Uno aveva un anno, quando l’hanno preso. Sputavano anche sulla sua immagine, nell’Italia che fu delle leggi razziali, nell’Europa che fu della Shoah e nelle università americane in cui inneggiare allo sterminio degli ebrei non è necessariamente improprio perché dipende dal contesto.