La seconda pellicola del romanziere
Ouistreham, Carrere torna a Cannes e ci riprova con la disoccupazione femminile
Quando un regista incontra un romanzo, l’uomo con la macchina da presa è un uomo morto. È sempre (spesso) meglio la pagina scritta. E quando un grande romanziere dirige un film, tratto da un libro non suo? Una delle tante risposte la porta in dote Ouistreham (Between Two Worlds) che ha aperto ieri la sezione parallela, sempre foriera di emozioni cinefile, Quinzaine des Réalisateurs. Ouistreham è il titolo con cui Emmanuel Carrere, un gigante della letteratura contemporanea di oltralpe, ci (ri)prova. Per il suo debutto alla regia, si era rifugiato nell’arcinoto. Dal suo romanzo I baffi, nel 2005 Carrere trasse L’amore sospetto.
Il salto andò benino, non benissimo. Tanto che prima di riprovarci, lo scrittore-regista ha lasciato passare quindici anni abbondanti. Se al primo tentativo aveva pescato Vincent Lindon, dal mucchio dei maggiori attori francesi, onorati di farsi dirigere da lui, all’opera seconda tocca a Juliette Binoche. E se non bastasse, oltre a potere contare sul fondamentale apporto della star, Carrere mette liberamente mano a Le quai de Ouistreham di Florence Aubenas, celebre giornalista. Almeno per una fetta della opinione pubblica francese, Aubenas addirittura è una eroina. Inviata di guerra in Iraq, è stata rapita e tenuta prigioniera per mesi. Sembra niente dunque, la sua decisione di iscriversi a un ufficio di collocamento, per testimoniare le complesse condizioni di vita dei disoccupati di Caen. Ovviamente, niente non è. Dalla cronista nasce il personaggio della Binoche. Ed è sui personaggi che il film si regge.
Fine narratore, più eccezionale interprete, la coppia Carrere-Binoche funziona. Specie per la bella umanità che traspare da un film di stampo magari troppo classico, comunque molto degno per spirito civile, sottrazione, vita vissuta ed economia dei sentimenti. E se in avvio, nella bugiarda a fin di informazione Marianne Winckler — infiltrata fra le donne delle pulizie del traghetto Francia-Inghilterra — si scorgono lontane somiglianze con il finto medico e vero assassino di L’avversario (bestseller e capolavoro del romanziere, anche questo da una storia vera), presto tutto si spoglia di orpelli, per affrontare una quotidianità purtroppo dolorosa e purtroppo poco straordinaria. Straordinarie e non prive di dolori, le esistenze famigliari di Jane Birkin e di sua figlia (avuta dall’intramontabile Serge) Charlotte Gainsbourg. Fatte, per natura e formazione, della stessa sostanza di cui è fatto lo spettacolo, le signore si raccontano in un film documentario. Fuori concorso nella sezione Cannes Premiere, Jane par Charlotte è diretto dalla più giovane delle due. Anche se a vederla oggi, la 75enne Jane è un inno al bel vivere. Charlotte, rispetto a lei è sempre stata più tenebrosa. Ma altrettanto brava. Per i più giovani e modaioli: Jane Birkin non ha preso cognome dalla borsa-simbolo a firma Hermes. È stata lei, cantante e attrice, a darglielo. Miti che generano altri miti.
Oggi. Dall’olimpo francese che ha dominato le prime battute del festival, fanno capolino anche gli italiani. Di quelli che i cugini ci invidiano. Cui tanto avrebbero voluto far valicare il confine di Stato, per farli esprimere in lingua francofona. Buongustai. Di certo grazie, per volere ricordare nella sempre importante sezione Cannes Classics, due nostri maestri. Tocca a Pietro Germi e Roberto Rossellini, di cui vengono mostrati due opere non tra le loro più viste e più citate. Di Germi, Il cammino della speranza con Raf Vallone. Classe 1950, il film è sceneggiato dal regista in santissima trinità di scrittura, con Fellini e Pinelli. Religioso per altre vie, più canoniche, Francesco, giullare di Dio (sempre del ‘50) arriva nella carriera di Rossellini dopo Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero. Non è forse un capolavoro loro pari, ma merita sempre.
Ecco, sempre oggi perché non poteva farsi attendere ancora, il cinema americano. Rappresentato da due esempi molto distanti, altrettanto interessanti. The Velvet Underground è il documentario che Todd Haynes, regista festivaliero di Carol e Io non sono qui, dedica alla omonima e storica rock band. Fuori concorso. Come Stillwater di Tom McCarthy, premio Oscar per Il caso Spotlight. Qui dirige la star Matt Damon, nel rapporto complicato con la figlia Abigail Breslin, la (ex) bimba di Little Miss Sunshine. Damon è sulla Croisette, impegnato anche in una chiacchierata con il pubblico. Il format si chiama Rendez-Vous, preso a prestito dalla Festa del Cinema di Roma.
Il concorso prosegue ancora in sordina. Almeno all’apparenza, perché tutti sperano che il piccolo africano Lingui del regista Mahamat-Saleh Haroun, dal Chad, possa commuovere pubblico, critici e giuria. Le premesse ci sono tutte. Una ragazzina di 15 anni rimane incinta. La madre combatte contro le convenzioni sociali e religiose, di un Paese che vieta l’aborto. Anche al mare, in pieno luglio, un cinema che aiuti a conoscere e riflettere è sempre bene accetto. Da Binoche-Carrere, al continente africano.
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