"Il mio ruolo non è giudicare ma accompagnare"
Padre Loffredo, il parroco del Rione Sanità: “Scrissi al Papa, fu la mia guida nel momento di smarrimento”

Tra sfide pastorali, religiosità popolare e rigenerazione sociale, Padre Antonio Loffredo – storico parroco del Rione Sanità e figura simbolo di una Chiesa vicina agli ultimi – racconta cosa ha significato per lui il pontificato di Papa Francesco.
Padre Antonio Loffredo, che cosa ha voluto dire per un uomo di Chiesa, ma di «frontiera» come lei, il Papato di Papa Francesco?
«Fui subito colpito dalla sua umanità, quando si affacciò dal balcone definendosi come Vescovo di Roma e non Papa compresi che sarebbe stata la guida giusta per la Chiesa di quegli anni. Sapeva di non dover agire come apice di una piramide ma come centro che accoglie infiniti cerchi concentrici».
Lei ha raccontato di aver avuto anche un momento di smarrimento in cui sentiva che la Chiesa non fosse più casa sua, anche lì il Papa riuscì ad essere una guida accogliente?
«Era un momento complesso, avevamo creato un’esperienza costruttiva che offriva un futuro a ragazzi che venivano da un contesto difficile, ma la Chiesa mi chiedeva di dare un contributo economico che avrebbe reso insostenibile la prosecuzione del progetto. Non si comprendeva come quell’organizzazione avesse dei costi da dover sopportare per poter andare avanti».
In quel momento ha sentito la Chiesa distante, come un’organizzazione centralizzata lontana dai bisogni del territorio e di chi vive i problemi delle persone quotidianamente?
«Ho sempre pensato che avremmo trovato un accordo e ovviamente così è stato, soprattutto grazie al supporto di Don Mimmo Battaglia che mi ha chiesto anche di replicare l’esperienza della Sanità al centro storico. Non avrei mai pensato di scrivere una lettera addirittura al Papa, ma mi convinse un caro amico. Alla mia lettera il Papa rispose in modo accogliente, mi disse che nonostante tutti i limiti delle persone che fanno parte della Chiesa, essa rimaneva casa mia e il luogo dove dovevo continuare a costruire. Era quello che speravo di potermi sentire dire».
Lei porta avanti da sempre un percorso di emancipazione sociale e culturale che parte proprio dalla religione popolare. Che ruolo ha ancora nel 2025?
«I quartieri popolari custodiscono l’antichità, nel bene e nel male, e ciò va preservato. La religione popolare dimostra come persone semplici sappiano esprimere una religiosità profonda. Il culto della Madonna dell’Arco che portiamo avanti non è altro che il culto della mamma, uno dei pochi punti fermi anche per chi non ne ha in una vita difficile. Quando mi trovo a confrontarmi con ragazzi a cui è difficile indicare una strada, quello che mi sento di indicare è di seguire i semplici consigli delle loro madri: “Pensa a stare in salute, stai con chi è meglio di te…”. A volte quello di cui c’è bisogno è proprio questa semplicità».
Chi guarda la religiosità di Napoli da fuori ne critica spesso l’eccessiva ritualità, simbolo secondo alcuni di arretratezza culturale. Lei come risponde?
«Io penso che la nostra “carnalità” sia un modo di esprimere un legame profondo. Non credo ci sia bisogno di teatralità o attaccamento ai rituali in sé. Ma quello di cui sicuramente non c’è bisogno è un atteggiamento giudicante. Il mio ruolo non è giudicare ma accompagnare, solo in questo modo credo di poter aiutare a migliorare».
Crede che l’atteggiamento giudicante e di denuncia, a volte non accompagnato da proposte costruttive, sia un limite anche delle istituzioni verso la comunità di Napoli?
«Personalmente apprezzo chi fa denuncia e credo che sia fondamentale, ma non è il mio ruolo. Il mio ruolo è accompagnare e cercare di tirare fuori il meglio da chi ho accanto. Se quando mi viene a chiedere la benedizione per partecipare ai riti della Madonna dell’Arco un ragazzo di cui mi sono stati riferiti comportamenti non raccomandabili, decido di allontanarlo, giudicarlo, ghettizzarlo… Cosa sto facendo per quel ragazzo? Quel momento per me è un’occasione unica per creare un legame, offrire una prospettiva e un’alternativa. Di questo ha bisogno da parte mia quel ragazzo, non del mio giudizio».
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