I fatti sono noti. Un decreto legge ha stabilito quali siano i paesi sicuri, ai fini della procedura accelerata anti-migratoria, fra cui il Bangladesh e l’Egitto (D.L. 23 ottobre 2024, n. 158 di modifica del Dlgs. del 28 gennaio 2008, n. 25). Il testo ha innescato una richiesta di rinvio pregiudiziale – ex art. 267 del TFUE – alla Corte di Giustizia dell’Unione europea da parte del Tribunale di Bologna (R.G. 14572-1/2024).

Il quesito sottoposto alla CGUE è così sintetizzabile: “Se per il diritto dell’Unione europea […] il parametro sulla cui base debbono essere individuate le condizioni di sicurezza che sottendono alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro debba essere inderogabilmente individuato nella carenza di persecuzioni dirette in modo sistematico e generalizzato nei confronti degli appartenenti a specifici gruppi sociali […]. Sono seguite aspre critiche da parte di chi ha visto in questo rinvio una manovra di stampo bolscevico. Va fatta chiarezza sul punto. Un rinvio pregiudiziale alla CGUE da parte di un giudice nazionale non segna l’inizio di un’insurrezione anti-governativa, ma è da considerarsi l’ordinario strumento per una vigile attuazione di un diritto uniforme negli Stati europei, visto che costituisce “la chiave di volta del sistema giurisdizionale”.

La Ue, che ha fornito all’Italia un rilevante e cospicuo tesoretto per il Pnrr, è la stessa Europa che elabora regole giuridiche uniformi. Per realizzare un tale progetto, un ruolo centrale spetta alla CGUE che – proprio attraverso i rinvii dei giudici nazionali – coglie l’occasione per chiarire qual è la portata effettiva di una regola eurounitaria. Il sistema a “rete” del dialogo tra giudici nazionali e CGUE è talmente stretto che all’art. 2, terzo comma, della legge n. 117/1988, sulla responsabilità dei magistrati, si afferma: “Costituisce colpa grave la violazione manifesta […] del diritto dell’Unione europea [..]”. Dunque nulla di eversivo nella scelta dei giudici di Bologna.

La soluzione al problema può arrivare – innovando ex novo la disciplina migratoria – con l’identificazione di criteri soggettivi e concreti, non astratti in quanto enunciati in una legge. Occorre partire da una valutazione di buonsenso: nessuno scappa dalla Svizzera tedesca o da Bruges. La valutazione di sicurezza di un paese non può che essere relativa e purtroppo anche valutata al ribasso, proprio perché i fenomeni migratori si correlano a calamità di guerra, sanitarie, alimentari e soprattutto climatiche. Quindi a luoghi per definizione “insicuri”. Non possiamo generalizzare i paradigmi teorici occidentali con l’idea che siano valide in tutto il mondo. Il Tribunale di Bologna percepisce il problema, ma sembra cadere nelle sabbie mobili dell’occidentalismo velleitario – esportatore di democrazia nel mondo – quando argomenta con il richiamo alla Germania nazista, paese oltremodo sicuro per la popolazione tedesca ma “[…] fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom […]”.

Invece, al di là delle proposizioni astratte, ciò che deve emergere è se dal racconto (riscontrato) del migrante risulti per lui effettivamente pericoloso tornare nel paese di origine: saranno la coerenza e la credibilità della sua storia – una volta verificate – a stabilire il criterio valoriale, strettamente soggettivo della “sicurezza”. Tutti dovrebbero tenere a mente un esempio specifico. La Cassazione si è trovata a decidere casi contestati di rifiuto dello status di rifugiato per persone che si ritenevano, una volta tornate in patria, esposte agli strali di un rito voodoo (v., Cass. Civ. 12405/22; 12328/21; 20629/20). In situazioni (limite) come queste, non c’è definizione legislativa che tenga: la sicurezza di un paese si acclara, caso per caso, immergendosi nel circuito fattuale e culturale del richiedente e non elevando a norma il nostro paradigma di sicurezza.

La stessa sentenza della Grande Camera della CGUE del 4 ottobre 2024 (C‑406/22) – dopo aver enunciato criteri astratti – sottolinea la necessità di un controllo giudiziale esteso a ogni aspetto del merito su quanto esposto dai richiedenti. Il messaggio sentenziato merita la massima attenzione: la CGUE afferma paradigmi generali e poi – sulla base di una sana effettività – li mitiga, riconoscendo la priorità della valutazione singola, concreta, discrezionale, personalizzata.

Proprio valorizzando il compito di approfondita verifica, assegnato al giudice dalla sentenza europea della Grande Camera CGUE, il Tribunale di Catania (con decreto del 4 novembre 2024) ha disapplicato il decreto-legge n. 158/2024 cit. rispetto a un migrante egiziano. Ha elencato in maniera dettagliata le agghiaccianti violazioni sistematiche dell’Egitto (solo per citarne alcune) in tema di diritti fondamentali, pratiche di tortura e compressione del “giusto processo”, ricavandole (va sottolineato) dalla scheda-paese elaborata dal ministero degli Affari esteri. Nulla di eversivo anche rispetto alla disapplicazione. È una naturale conseguenza dell’efficacia diretta e del predominio del diritto eurocomunitario da cui discende, in caso di conflitto con la norma nazionale, la necessità sistemica di disapplicare quest’ultima.

Bartolo Conratter

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