Questa è la rubrica della Posta della Prevenzione, nata per dare una voce a chiunque voglia condividere esperienze di discriminazione, violenza e rinascita. Questo è il luogo dove tutte quelle storie troppo dolorose per essere raccontate ad alta voce, trovano uno spazio sicuro e protetto dal più assoluto anonimato. Scriveteci a: postaprevenzione@gmail.com
La tutela della persona è la priorità della rubrica: nomi, luoghi e dettagli personali vengono scrupolosamente modificati in modo da garantire il più assoluto anonimato.
Sono Luna.
Dieci secondi per sette, moltiplicato per dieci, moltiplicato ancora per trenta. Ho provato a fare il calcolo più volte dopo aver letto la notizia che, per il tribunale di Roma, un palpeggiamento della durata dai 5 ai 10 secondi non è considerato violenza.
Il risultato che mi è rimasto tra le mani è un enorme numero di secondi che, sommati sono diventati prima minuti e poi interminabili ore. Quelle ore fatte di palpeggiamenti, molestie, ad opera dell’ultrasessantenne, durante delle ripetizioni di Latino nelle quali inchiodata su una sedia, controllavo le lancette dell’orologio di fronte a me che non sembravano mai muoversi. Mi sono domandata se anche quell’ammontare di ore sarebbero state giudicate tante “manovre maldestre”. Chissà se anche lui, dopo aver proposto alla me allora quattordicenne di spostarsi nella camera da letto affianco, sarebbe solo stato giudicato un gran maldestro.
È leggendo quella notizia che la scelta di non aver mai denunciato, e di aver in silenzio custodito per nove anni tutto ciò che accadeva durante quelle ore, è forse stata la decisione che più si adegua ad un sistema giuridico, e alla sua società, che giudica la violenza come tollerabilmente maldestra. All’epoca forse, quella quattordicenne seppur non conoscendo la definizione della parola molestia, aveva intuito che la società attorno a lei viveva anch’essa nell’ignoranza di riconoscere il significato che quel temine porta con sé.
Mi sono chiesta se, durante quei nove anni vissuti nell’attenta custodia di quel segreto, nessuno si fosse mai davvero accorto di nulla. Chissà come la mia vita sarebbe stata diversa se qualcuno, durante uno dei tanti attacchi di panico avuti a scuola, mi avesse guardata, davvero, e mi avesse chiesto cosa stava succedendo. Sembrava che se io non trovavo il coraggio di dire una parola, agli altri mancava quello di chiedere e così, non risposi mai ad una domanda che nessuno mai mi rivolse. Così, per quei nove anni la mia vita è stata dedicata alla custodia di quel segreto nella speranza che, se nessuno ne avesse scoperto il contenuto un giorno, magari, lo avrei dimenticato anche io.
Invece, tutti i secondi in cui quelle mani sconosciute mi toccavano il corpo, si sono ammassati da qualche parte invece che sbiadire, come se quell’orologio si fosse rotto, consumandomi così piano piano. Bloccata in un dolore che negavo a me stessa essere il mio, anno dopo anno la mia vita sembrava essere già finita, ancora prima di cominciare.
Finché un giorno, tutta quella montagna di rabbia e risentimento è esplosa.
Tutto e niente sono cambiati allo stesso tempo: quello che ho trovato dopo l’aver urlato la verità alla mia famiglia è stata non tanto incredulità, ma la difficoltà ad accettare di essere stati spettatori ignari di quell’orrore, cercando, per difendersi, di ritrattare maldestramente la realtà e significato della parola violenza. Ma, se nemmeno un tribunale sa chiamare la violenza con il proprio nome, come aspettarsi che le persone ne confessino la natura, costituendosi così parte di una società disfunzionale che maldestramente traveste i suoi stessi mostri.
Vorrei credere che le cose oggi siano diverse da come lo erano dieci anni fa, che le mamme ed i papà guardino negli occhi i loro figli, e che bussino a quelle porte che nonostante sembrino chiuse a chiave, aspettano solo di essere aperte. Vorrei che quelle ragazze, donne, a cui è stato insegnato a non disturbare, a non fare troppo rumore, chiedano l’aiuto di cui hanno bisogno e facciano sentire la propria voce anche solo sussurrando. Vorrei dire loro che le cose possono cambiare, che da sole si finisce per affogare ed affidarsi alla parola dell’altro, a centri anti violenza, ad un percorso psicologico, salva quella vita che sembra essere rotta, e ne da una nuova. Vorrei poter dire loro di denunciare, di avere la forza che io non ho avuto, e di non accettare che il diritto delle donne ad avere giustizia venga cronometrato. Se abbiamo un compito deve essere quello di non adattarci a sopravvivere in una società così mediocre da non prendersi nemmeno la responsabilità di chiamare la violenza con il proprio nome, perpetrandola.