“Siamo in guerra”. Non solo come intende Emmanuel Macron quando si riferisce al Coronavirus. È una questione di conflitto tra chi ha le stelle come simbolo. Da un lato, predominante sembra essere il numero cinque: quelle gialle stampigliate su sfondo rosso (il colore della rivoluzione) della bandiera della Repubblica Popolare Cinese e sono cinque (anch’esse di colore giallo) quelle del più modesto Movimento Cinque Stelle. Invece, dall’altro lato dello schieramento, sono cinquanta quelle della bandiera degli Stati Uniti.
È, e sarà guerra, tra il gruppo dei cinque stelle colorate di giallo (China and Luigi Di Maio) versus Stati Uniti. È ormai noto come le donazioni sanitarie dalla Cina siano un mezzo di propaganda, abbiamo visto come il buon soldatino ministro degli Esteri Lugi Di Maio sia adoperato come cerniera, instancabile punto di riferimento tra Roma e Pechino. Siamo abituati, come abbiamo già più volte scritto, alle genuflessioni, all’apostolato dei Cinque Stelle nei confronti del nuovo potente imperatore Xi Jinping, anche se non è ancora ben chiaro che cosa hanno in comune il Sogno Cinese e i disorientati pentastellati.
Anche se lo scopo della propaganda è facilmente intuibile: eccitare la massa (o meglio, quelli che sono rimasti) degli iscritti al fan club “forza Gigino” porgendogli un vassoio con sopra adagiato il già masticato problema e la relativa soluzione: Coronavirus (problema) e la Cina è l’unico nostro salvatore che, guarda caso, ci farà risorgere tutti attorno a Pasqua. Anche la tempistica sembra perfetta. E per unico salvatore significa indurre a coltivare sentimenti anti Europa e anti Stati Uniti, quelli che egoisticamente non ci stanno aiutando.
Il momento è difficile e porterà a scontri: da un lato del globo il Presidente Donald Trump vuole vincere le elezioni, mentre dall’altra parte il potente Presidente Xi Jinping in seguito alla criticatissima gestione della prima fase del Coronavirus a Whuan e delle imperdonabili censure e ritardi delle comunicazioni deve riconquistarsi la fiducia, entrambi i leader globali per vincere devono fare la voce grossa. Il sentimento è reciproco: la Cina considera gli Stati Uniti una minaccia così come Washington considera Pechino. Ed ora, in questo contesto, non c’è dubbio: la Cina vuole riposizionarsi. Volano e voleranno stracci.
La partita che si sta giocando è globale. Intanto, per non lasciare spazio ad interpretazioni, il Presidente Donald Trump ha battezzato il Coronavirus come il “virus cinese”: senza alcun pudore ha puntato il dito indice contro Pechino. Ciò per vari motivi, alcuni contingenti. Soprattutto per ripicca dopo che Zhao Lijian, portavoce del ministro degli Esteri cinese ha ipotizzato che fossero stati gli americani ad esportare il letale virus in Cina in occasione dei giochi militari che si sono svolti a Whuan nell’ottobre dello scorso anno, gli Stati Uniti hanno partecipato con una delegazione di circa trecento atleti.
Senza dimenticare la vicenda dei giornalisti delle note testate New York Times, Wall Street Journal e Washington Post recentemente espulsi dalla Cina, impegnati a descrivere l’esplosione e la diffusione del Coronavirus nel Celeste Impero. Gli esempi da riportare che testimoniano un sentimento anti cinese in America sono tanti, tra cui un articolo apparso su The National Interest a firma di due docenti universitari Bradley Thayer e Lianchao Han: «Le autorità cinesi hanno mentito sulla pandemia minimizzando la minaccia».
La Cina può essere accusata di “negligenza criminale”? Questo è uno dei punti deboli che sta fortemente segnando e caratterizzando il binomio Coronavirus-Cina: colpevoli perché non trasparenti. Shao Yiming, uno dei più famosi virologi cinesi, ha rilasciato una lunghissima intervista alla agenzia di stampa Caixin in cui, anche se con prudenza ma decisione, ha ammesso come «inizialmente le autorità cinesi non sono riuscite a identificare e controllare le minacce poste dal Covid-19 a causa d’ipotesi errate e debolezze in un sistema di segnalazione diretta accuratamente costruito». Ma la parte più interessante del lungo intervento è quello finale: «A Whuan i funzionari hanno chiuso il mercato dove si pensava fosse emersa l’epidemia e pensavano di potere tenere la malattia sotto controllo.
Ma hanno ignorato la necessità di denunciare la malattia e hanno minimizzato la gravità». Di fronte a queste chiare accuse, per cercare di contrastare i malumori che provengono dalla stessa Cina il Partito comunista cinese sta organizzando la nota campagna buonista-diplomatica. Una curiosità: a Milano, come in altre parti del mondo, troviamo la Mindray Medical, società unicamente partecipata dalla Shenzhen Mindray Biomedical Elecronincs. Sono ottimi produttori di apparecchi elettromedicali, tra cui i famosi respiratori indispensabili per salvare la vita ai pazienti più colpiti dal Coronavirus.
In Cina l’azienda madre terrà nei prossimi giorni un convegno scientifico, ospiti alcuni famosi medici che hanno operato nei nosocomi di Whuan, il titolo della conferenza è “Chinese Solution. Global Sharing”, vale a dire: “Soluzione cinese, condivisone globale”. Perfidi analisti hanno inserito la guerra al ribasso del prezzo del petrolio da parte di Mosca come un’opportunità offerta alla Cina per fare ripartire l’economia.