Cultura
Pane e perdono per tutti: impariamo dal Padre nostro
Caro Monsignore, io non sono molto preparato in teologia, però mi pare di ricordare che delle tante preghiere che fanno parte della ritualità cristiana, l’unica di origine evangelica sia il “Padre nostro”. Giusto? L’ha dettata Gesù, se non sbaglio, alla fine del discorso della montagna. Ora io l’ho letta e riletta. È breve. Alcune frasi sono di normale celebrazione religiosa: “sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno…”. Le frasi forti e di sostanza mi sembra che siano due: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, e “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Provo a tradurle, alla buona, come può tradurle uno che le riferisce alla società di oggi. La prima vuol dire accoglienza, lotta alla povertà e – se posso essere appena un po’ blasfemo e rozzo – “Welfare”. La seconda vuol dire giustizia clemente, non risarcitoria, mai vendicativa e – se posso essere appena un po’ blasfemo, e rozzo – garantista. Sbaglio, Monsignore? Perché se invece non sbaglio io chiedo l’iscrizione al partito del padrenostro. Da anni penso che la politica (io dico: la sinistra) dovrebbe essere solo lo strumento per raggiungere questi due obiettivi: tanto welfare, accoglienza e diritto garantista…
Piero Sansonetti
Caro Direttore, hai detto bene. Il Padre Nostro è l’unica preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli. Hai fatto bene a leggerla e rileggerla. Ti sei aggiunto a quel mare di uomini e di donne che da venti secoli continuano a farla salire al cielo ogni giorno. In realtà, ogni sua parola è preziosissima. E eviterei di dire che alcune di esse sono di “normale celebrazione religiosa”, come per sminuirne la forza. Non è così. Già dalla prima parola: “Padre”. Gli ebrei, anche i più devoti, neppure pronunciavano il nome di Dio. Gesù invita a chiamarlo “abbà”, ossia “papà”. Del resto, se volessimo riassumere in una parola la missione di Gesù, potremmo dire che è venuto unicamente per parlare del Padre. Tanto che una volta Filippo, uno dei dodici, gli disse “mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14, 8). In effetti se ha Gesù accolto i peccatori è stato per mostrare che Dio è padre buono che accoglie e perdona. Se ha fatto miracoli, è stato per mostrare che Dio è amore che salva e libera. Se è morto sulla croce è stato per mostrare che Dio è un padre che ama i figli sino alla morte. Fu una rivoluzione in quel tempo. A dire il vero anche oggi lo è visto che molti parlano della “evaporazione” del padre. Potremmo aggiungere che è evaporata anche l’altra parola, “fratello”. La preghiera di Gesù fa aggiungere “nostro”: Padre nostro. Il Dio di Gesù è il Padre di tutti. Tutti sono suoi figli e quindi fratelli e sorelle tra loro. La devozione non è più gerarchica e servile, è comunitaria e reciproca! Il “Padre nostro” è una preghiera comune, anche quando la reciti da solo. In un mondo che ha dimenticato il senso della fraternità, il Padre Nostro è davvero un bomba esplosiva. Il Figlio è nostro fratello! La modernità che aveva fatto della fraternità una delle tre parole fondanti, assieme a libertà e uguaglianza, l’ha dimenticata. Ben venga il Padre Nostro in una società in cui dopo il “padre” è evaporata anche la “fraternità”. Siamo in un mondo di padreterni farlocchi e di figli orfani. Il Padre nostro è un programma di redenzione, già dal nome.
Non commento le frasi che seguono le due prime parole – anch’esse forti e di sostanza – e vengo alle due domande che a tuo avviso possono fondare il “partito del Padre Nostro”. La prima: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. È la domanda più umile tra quelle del ‘Padre nostro’. Ma è posta al centro. Alcuni pensano che la parola “pane” in questo contesto è una metafora magari per significare l’eucarestia oppure la parola di Dio o altro ancora. No. Il pane è proprio il pane. E il credente non si vergogna di chiederlo. La Bibbia sa quanto sia importante il pane. E lo sanno anche quei milioni e milioni di persone che oggi non lo hanno. Anche il pane è “nostro”. E chi recita questa preghiera lo sa: il pane è per tutti, è nostro, non solo di qualcuno. C’è qui una contestazione radicale del consumismo individualista. È una preghiera che condanna la crudeltà di un mondo nel quale ogni giorno muoiono decine e decine di migliaia di persone per fame. E la stessa preghiera invita alla sobrietà. Si chiede il pane sufficiente per oggi, non di più. È una richiesta che impegna il Padre alla sua responsabilità paterna di non far mancare il pane ai figli. E può benissimo ispirare la società di questo tempo perché, come tu dici, sia più attenta nel versante “dell’accoglienza, della lotta alla povertà e persino del welfare”. Esiste, nel racconto evangelico, una plastica dimostrazione della differenza fra la richiesta del pane per tutti – e quindi anche per noi – e la ricerca del pane per noi soltanto. Il vangelo racconta che Gesù fu tentato dal diavolo di trasformare le pietre in pane per saziarsi. Niente di indecente, in apparenza: ma Gesù rifiutò, trattandola come una mossa del diavolo. Più tardi, quando la folla ebbe fame, Gesù invitò i discepoli a cercare il modo di nutrirla. E di fronte all’imbarazzo dei discepoli, disposti a dividere quello che avevano, ma impotenti a farlo bastare, Gesù fece un miracolo strepitoso. I doni speciali di Dio vanno impiegati anzitutto per la fame degli altri: quando questo accade, il Padre non ti farà certo mancare il pane. È così che funziona lo spirito del vangelo.
Così pure l’altra richiesta, la quinta, del Padre Nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Lo stretto legame tra il perdono del Padre e il nostro perdono ai fratelli è un motivo ricorrente nei Vangeli. In questa preghiera il perdono di Dio e il nostro perdono ai fratelli sono legati da un “come”. Certamente questo “come” non significa che il nostro perdono costituisca la ragione, la misura e il modello del perdono di Dio. Sarebbe un modo capovolto di guardare Dio. Il suo perdono precede sempre il nostro, è infatti incondizionato, gratuito e senza misura. Tuttavia il “come” pone tra i due perdoni un legame stretto. Lo ribadisce Matteo in una sorta di breve commento a questo passaggio del Padre Nostro. Scrive: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6, 14-15). Insomma, in qualsiasi modo si intenda il senso di quel “come”, resta fermo che il perdono ai fratelli è la “misura” della fede autentica nella paternità di Dio. È ovvio che il Vangelo non intende riferirsi alla legislazione civile. Ma non c’è dubbio che c’è qui una sapienza umana che può davvero illuminare le relazioni tra gli uomini. Nella preghiera del Padre Nostro il legame tra il perdono degli uomini e il perdono di Dio è stretto. Addirittura necessario. Anche il perdono dato, e non il perdono ricevuto, è decisivo. Per il cristianesimo, il Padre lo si incontra nel perdono: l’atteggiamento fondamentale di fronte a Dio è il perdono ai fratelli, un perdono senza limiti, perché unicamente il perdono senza limiti (“non fino a 7 volte, ma fino a 70 volte 7”) assomiglia al perdono di Dio. La parabola del servo perdonato e incapace di perdonare (Mt 18,23 – 35) insegna che il perdono del Padre è il motivo della misura del perdono fraterno. Si noti bene, comunque, che il perdono non significa cancellare le responsabilità dei colpevoli e neppure far finta che non sia successo nulla. Il perdono suppone la consapevolezza del male e lo sdegno per quanto è accaduto, accompagnato dalla decisione di sradicarlo e di non farlo più. L’esercizio del perdono, quindi sia chiederlo che concederlo, è un atto di maturità spirituale e sociale. Al contrario, in una concezione manichea che divide la società in buoni e cattivi, il perdono non solo viene bandito, ma neppure viene concepito. I frequentatori di questa cultura, ovviamente, si pongono sempre dalla parte buona, visto che quella dei nemici è da emarginare e possibilmente abbattere. La storia ci insegna che la cultura del nemico si rivolta sempre contro gli amici. Non la fermi mai. Non estirpa il male. A mio avviso, una cultura del perdono trasforma la società. Il perdono, non è perdonismo (brutta parola e malamente usata!), ed è ben lontano da un atteggiamento permissivo. Semmai, richiede un cambiamento profondo. Va anche sottolineato che il perdono non lascia le cose come sono. Non è ingenuo: scende nelle profondità del cuore. Richiede saggezza umana e sapienza religiosa. Il perdono non è una dichiarazione di intenti, è un atto di relazione. Certo, è un processo lungo e difficile. Ma umanissimo. Non solo libera dalla cecità di non vedere la trave che chiude il proprio occhio per esaminare puntigliosamente la pagliuzza nell’occhio dell’altro, ma offre una visione nuova della vita. Ed è, in ogni caso, l’unico modo per salvarci e non distruggerci a vicenda. Per questo concordo che questa semplice e straordinaria preghiera aiuterebbe molto a convivere in pace tra fratelli e sorelle che per definizione sono diversi gli uni dagli altri, ma proprio per questo sono chiamati a riscoprire che l’umano è comune, nel bene e nel male: oppure non è più umano. Il perdono e l’amore, in definitiva, sono sinonimi. Sono sempre come le due facce indisgiungibili dell’identica moneta, con la quale cerchiamo di ricompensare la vita che riceviamo. In questo senso, certamente, si può dire che investirla nella comunità umana non è ingenua devozione: è astuzia politica.
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