«Ho deciso di disertare tutte le manifestazioni ufficiali per la strage di via D’Amelio fino a quando lo Stato non spiegherà cosa è accaduto davvero e non dirà la verità: nonostante le celebrazioni, si è sempre fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio». A dirlo è Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, il magistrato palermitano che trenta anni fa perse la vita nell’attentato di via D’Amelio assieme a cinque agenti della sua scorta. Fiammetta, in questi giorni non si trova a Palermo e nessuno è riuscito a farle cambiare idea. «Mio padre non è stato ucciso solo da Cosa nostra, ma il lavoro di Cosa nostra è stato ben agevolato da persone che sicuramente hanno tradito», prosegue Fiammetta.

Erano le 16:58 del 19 luglio del 1992 quando una Fiat 126 rubata e imbottita di 90 chilogrammi di esplosivo telecomandato a distanza esplose in prossimità del civico 21, proprio nel momento in cui il magistrato stava entrando nella casa della madre. Da quel giorno un susseguirsi di presenze continue nell’abitazione di casa Borsellino invase la vita dei tre figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, oltre che della moglie Agnese. «A casa mia da quando è morto mio padre, è entrato chiunque. Ma se all’inizio questa presenza continua era giustificata come forma di attenzione, alla luce di tradimenti e depistaggi, ci ha fatto capire che c’era una forma di controllo, una necessità di una sorta di ‘stordimento’. Ad una finta attenzione non è infatti seguito alcun percorso di verità: abbiamo avuto solo tradimenti e false rappresentazioni». Fiammetta, la più giovane dei tre figli del magistrato, ha ingaggiato una battaglia di verità soprattutto negli ultimi anni da quando, dopo la sentenza di primo grado del Borsellino Quater, poi confermata dalla Cassazione, si è accertato che le dichiarazioni rese dall’allora super teste dell’accusa Vincenzo Scarantino furono “al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.

Furono diversi i magistrati che si occuparono di Scarantino, ad iniziare da Ilda Boccassini. «Lei non sapeva dire di no alle pressioni del questore Arnaldo La Barbera», puntualizza Fiammetta: «Per mettersi il ferro dietro la porta ha scritto una letterina al procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Io dico che se la dottoressa Boccassini aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino doveva fare una denuncia pubblica, così è troppo comodo». «La Boccassini – ricorda Fiammetta – è quello stesso magistrato che ha autorizzato dieci colloqui investigativi di Scarantino nel super carcere di Pianosa e poi si è saputo che servivano a fargli dire il falso con torture e minacce». «Ilda Boccassini chiede ai colleghi di applicare le norme del codice perché si rende conto di ciò che fanno, una cosa così grave non la puoi scrivere in una letterina. E darla a un procuratore che poi la mette in un cassetto e la lascia lì. Per me la denuncia è un’altra cosa. La si fa pubblicamente. Come mi ha insegnato mio padre. Io l’ho letto come un mettersi il ferro dietro la porta. Questa non è una denuncia o stoppare un percorso deviato», continua Fiammetta. La figlia del magistrato è da sempre critica verso quella magistratura che non ha saputo (o voluto), a tempo debito, effettuare indagini efficaci per scoprire gli autori della strage.

Fu solo grazie al pentito Gaspare Spatuzza che Scarantino si scoprì essere un taroccatore. «Abbiamo avuto magistrati che non hanno fatto le verbalizzazioni dei sopralluoghi nei garage dove Scarantino diceva di avere rubato la macchina. Se fosse stato fatto un verbale ci si sarebbe resi subito conto della inattendibilità di Scarantino che non sapeva neppure come si apriva quel garage, se non avessero delegato segmenti di indagine ai servizi segreti, se avessero esercitato quel controllo previsto dalla legge sugli organi investigativi il depistaggio non ci sarebbe stato. Tutto questo non può avvenire sotto gli occhi di chi invece deve controllare e coordinare, cioè i magistrati», prosegue ancora Fiammetta.

«Se un medico avesse sbagliato un’operazione di questo tipo – aggiunge – sarebbe stato messo subito dietro le sbarre, qui invece si è deciso di non avviare nessuna indagine, né sul piano disciplinare o penale. E quel poco che si è fatto è stato subito archiviato. C’era la volontà della magistratura di non guardare dentro se stessa, perché si doveva partire da quella frase che disse mio padre quando definì la Procura di Palermo ‘quel nido di vipere’”. «Mio padre, pochi giorni prima di quel tragico 19 luglio 1992 disse a mia madre che “non sarà la mafia ad uccidermi, ma i miei colleghi che glielo permetteranno”. Bene, qualcuno vuole andare a vedere finalmente cosa c’era dentro quel ‘nido di vipere’?», conclude Fiammetta.