"Mani pulite, vite spezzate"
Paolo Liguori e la lettera d’addio di Moroni: “Dal caso Del Turco al caso Toti ne è stata fatta di strada, ma all’indietro”
“La lettera che scrisse Sergio Moroni prima di suicidarsi, rivendicava onorabilità e primato della politica”. Con l’allora direttore de Il Giorno, rileggiamo quelle parole. E ripercorriamo quei giorni che ferirono Milano
«Ricordo perfettamente quel suicidio – afferma Paolo Liguori -, al tempo ero direttore de Il Giorno. L’ho vissuto di persona e lo considero come uno dei momenti drammaticamente più significativi di Mani Pulite. Il giorno dopo volli titolare “Mani pulite, vite spezzate”, un titolo che mi venne poi rinfacciato dai magistrati del pool. L’altro titolo che feci uscire, e che loro proprio non sopportarono, fu “giustizia ad orologeria”. Mi cercarono, mi convocarono. Ma tornando al povero Sergio Moroni, era vero socialista, persona seria per bene che fu accusata in maniera vergognosa ignominiosa. E lui decise che non avrebbe assolutamente potuto tollerare di perdere così la sua onorabilità. Ma non lo fece in silenzio, bensì inviando una lettera al Parlamento, perché riteneva che quell’istituzione dovesse proteggere i suoi membri da intromissioni giudiziarie, dovesse difendere la sua funzione, il suo ruolo e il suo primato».
Un tema che in trent’anni non ha avuto grandi evoluzioni…
«Dal caso Del Turco, fino ad oggi, al caso Toti…. Ne è stata fatta di strada, ma all’indietro! Il sangue mi ribolle, se penso che qualcuno, ancora adesso, parlando di quegli anni pronuncia la classica frase “c’è stato anche del buono”: Moroni e altri erano socialisti, ma sotto attacco erano anche la Dc, il Partito Comunista. L’intenzione del pool- a tratti quasi dichiarata – era spazzare via la politica, tutta. La liquidazione dei partiti. Il povero Moroni, con quella lettera lanciò un atto d’accusa feroce contro la persecuzione che la magistratura voleva attuare verso il Parlamento. Chi era indagato doveva parlare di altri, fare nomi, di altri politici, di imprenditori. E la cosa spaventosa fu che quando Morini si uccise, la versione che si volle far passare era che evidentemente di qualcosa era colpevole. Il suicidio come segno evidente di colpevolezza. Una cosa ancora più grave di una incriminazione, di un rinvio a giudizio. Stavano costruendo la loro carriera sulla pelle degli altri e si comportavano come se fosse una buona idea».
La politica capì tutta di essere sotto attacco?
«I magistrati del pool, all’inizio pensavano che contro Craxi avrebbero avuto solidarietà di democristiani, ma soprattutto dei comunisti. Questi invece comunisti capirono subito che sarebbe stata una deriva drammatica per la politica, che il disfacimento dei partiti non era e non può essere un passo verso la democrazia. Purtroppo ci furono anche quelli che diventarono schiavi, nemmeno dei giudici, ma – ancora peggio – del giustizialismo».
In questa pagina facciamo sempre di Milano il centro dell’analisi. Perché è la città nella quale tutto si verifica, si sperimenta, cambia. Quindi anche il luogo nel quale rimangono i segni, le cicatrici dei momenti storici più controversi e sofferti. Il suicidio di Sergio Moroni, la politica sotto attacco, il potere ostentato della magistratura. Tutto avvenne qui. Segni e cicatrici, abbiamo detto…Quanti? Quali?
«In quel periodo, Milano si ritrovò spaccata. C’era la Milano della borghesia che si sentiva in pericolo e da un giorno all’altro rinnegava le amicizie, le frequentazioni. Una città che improvvisamente non sapeva nemmeno più chi fosse Craxi, quando fino al giorno prima aveva frequentato case e salotti della politica. Un pezzo di città che se ne stava a far ricami, mentre vedeva le teste cadere sulla ghigliottina. Poi la Milano che non solo si schierò dalla parte dei giudici, scese perfino in piazza per difenderli. Infine una Milano che resisteva, la città intellettuale, con una cultura politica, che cercava di reagire. Forse quelli che son destinati a rimanere sempre minoritari, ma a non arrendersi. Il clima era spaventoso. C’erano esponenti socialisti , comunisti riformisti che erano tutti sul piede di essere indagati o di temere di esserlo. Venivano dipinti come la Milano dei corrotti, Ma nessuno di nessuno di loro era ed è poi diventato ricco. Non era nemmeno un gioco di potere, un gioco di giustizia. Era ormai l’affermazione di uno schema da parte dei magistrati: Il politico si impaurisce, parla dell’imprenditore, io metto le mani sull’imprenditore. Cosa ci poteva essere alla fine? L’idea che la politica dovesse passare dalla loro selezione, teorizzare il primato moralizzatore della magistratura sulla politica. Tutto questo segnò Milano profondamente, perché fu un attacco alla classe».
Ci fosse stato quel periodo, Milano ancora adesso sarebbe diversa?
«Ma guarda, ti posso dire una cosa? Se non ci fosse stato quel periodo l’Italia sarebbe diversa. Milano avrebbe continuato ad essere quello che era e che poi non è stata più in grado di essere completamente. La perla, la locomotiva… poi non è stata più del tutto così per il semplice motivo che si è ritrovata a dover scendere a compromessi. Oggi ricordiamo il povero Moroni, ma ci fu anche altro: Cagliari, Gardini… il sintomo che tutta quella vicenda aveva il potere di mettere la grande impresa, l’economica destinata a cerare sviluppo, in ginocchio. So già cosa diranno alcuni leggendo questa intervista: c’erano le tangenti! Ancora oggi c’è chi lo dice, oggi, nel 2024, quando di sottobanco costruiamo e forniamo armi dappertutto. Non mi si venga a dire che erano quattro tangenti a fare la modalità di un Paese, non scherziamo. L’America o la Cina o la Russia di tangenti ne fanno miliardi. La moralità di un Paese è segnata dalla sua cultura, dalla sua umanità, dalla giustizia reale e sociale. Sarebbe stato diverso il paese, e un po’ anche Milano, perché la politica non ha saputo riconoscere lezioni come quella rappresentata dalla lettera di Moroni. Non solo non ne ha attratto le conseguenze costituzionali, ma ha perfino abdicato, rinunciando all’ immunità parlamentare. Da quel momento l’Italia ha deciso di essere un paese meno libero».
Restando a Milano, ad esempio le inchieste che stanno adesso frenando l’edilizia, la rigenerazione urbana con i suoi grandi progetti, rovesciando l’interpretazione di norme consolidate sono in qualche modo figlie di quegli anni?
«Sono le nipotine sceme perché poi non incidono nemmeno più per la conquista del potere da parte di un’altra classe, ma insistono semplicemente sull’economia. In realtà tante cose sono figlie di quella fase. Anche un certo politically correct, l’espressione nel linguaggio, nella cultura. Nella stessa Milano, prima si respirava una cultura liberale, libertaria. La città che aveva dei punti di riferimento culturali che univano le persone anche al di sopra, al di là dei partiti, creando movimenti, dibattito. C’erano i luoghi, come la stessa Casa della Cultura, ma anche tanti altri. Oggi in generale c’è una questione politica, collegata a quanto lasciato da quegli anni: la cultura giustizialista. A Milano è il punto debole soprattutto della destra, quando tutto ciò che la città ha avuto di progressista, europeo, internazionale, viene dipinto come qualcosa da correggere. Milano non è per sua natura una città giustizialista, anche se certe tensioni, certe campagne furibonde come sull’immigrazione, sulla sicurezza, possono cercare di trasformarla in quello. Milano alla fine resiste e resta nella sua civiltà, perché è una città solidale. Lo è stata moltissimo e credo che lo sia ancora, dal centro alle periferie».
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