Nel bipolarismo “farlocco” italiano, i riformisti “sono stretti tra due fuochi”, quello di destra e quello di sinistra. Ma non bisogna disperare: perfino gli “scettici” possono diventare un terreno “fertile” per una proposta liberaldemocratica. Ne è convinto Paolo Macry, classe 1946, per cinquant’anni docente di storia contemporanea, prima all’Istituto Universitario Orientale e poi all’Università Federico II di Napoli, di cui è oggi professore emerito. Proseguiamo con lui le nostre interviste riformiste.

In Italia il riformismo latita: quali sono le ragioni storiche e culturali?
«Le ragioni storiche sono molte e ben note: uno Stato-nazione late comer, la frattura profonda nord/sud, il sud come serbatoio conservatore/reazionario di stabilità, le élite meridionali dell’arretratezza, l’acculturazione politica tardiva delle masse, il fascismo come modello di nazionalizzazione autoritaria dall’alto, la repubblica della Dc e del Pci (partiti ‘universalisti’ e conservatori), la mancanza di Bad Godesberg, una destra ridotta nel ghetto nostalgista. Insomma i limiti storici del liberalismo, la lunga parentesi dittatoriale e il fallimento politico della prima Repubblica. Poi arriverà il 1989 e, in Italia, il 1993-94 e la seconda Repubblica…».

Ma anche questa sembra in crisi…
«La seconda Repubblica nasce sul fallimento eclatante di un intero sistema politico, ma non trova l’antidoto a quella patologia, fondandosi su due pilastri egualmente di corto respiro: le leadership carismatiche (al posto dei partiti) e un bipolarismo instabile (perché fondato su coalizioni altamente eterogenee)».

La dicotomia attuale tra populismo/sovranismo, da un lato, e liberalismo/progressismo, dall’altro, fa saltare il tradizionale schema destra/sinistra?
«I riformisti/liberali sono stretti fra due fuochi, hanno due “nemici” e non uno, rischiano di non avere sponde alle quali fare riferimento. In Francia, per esempio, Macron è stretto fra Melenchon e Le Pen. I movimenti sia pure apparentemente opposti del populismo, del sovranismo, dell’anti-occidentalismo, del conservatorismo xenofobo, della demagogia anticasta, della spesa pubblica selvaggia, dello statalismo, dell’anticapitalismo hanno finito per spalmarsi su tutto lo spettro politico. Sono finiti a destra come a sinistra. Sono diventati l’ossatura del bipolarismo, mettendo in un angolo le “terze forze”, togliendo spazio (anche mediatico) a proposte politiche fondate su riforme e pragmatismo. Al punto che anche una personalità come Renzi si arrende alla realpolitik e decide di entrare nel calderone tossico di Schlein-Conte-Fratoianni. Con quale utilità, con quale efficacia, mi riesce difficile da capire».

Quale dovrebbe essere l’agenda riformista del nostro tempo?
«L’agenda del riformismo in Italia dovrebbe essere il recupero di quel che non si è fatto o si è fatto male in ottant’anni di Repubblica: Stato più efficiente, libertà di mercato, Stato di diritto, distinzione tra assistenza e sviluppo, un governo degli squilibri territoriali che attiri gli investimenti, ecc.».

Un percorso difficile…
«Sì, perché il fallimento della prima e della seconda Repubblica hanno accentuato i limiti del paese e della sua società, la sua frammentazione in una selva di interessi costituiti e corporazioni e microcorporazioni, la sua frattura materiale e culturale tra Nord e Sud, la diffusione delle aree assistite, l’invasività di una politica al tempo stesso fragile e smaniosa di spoils system. Oggi, un’agenda riformista deve vedersela con un paese viziato e tramortito da decenni di malgoverno centrale, regionale, municipale. Nel 2016 il compianto Piero Craveri intitolava così una delle sue ultime fatiche: “L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della Repubblica italiana”. Un libro che andrebbe letto».

Spesso di fronte alle riforme, la sinistra oppone il tabù del fascismo eterno e lancia allarmi contro derive autoritarie che non esistono.
«Antifascismo e conservatorismo costituzionale sono i tradizionali pilastri – il tradizionale passepartout – della sinistra di origine comunista. Hanno avuto un ruolo decisivo per tutta la prima Repubblica. Elly Schlein può essere giovane e post-ideologica quanto si vuole, ma dipende da uno zoccolo duro (di opinione e di partito) che è tuttora fortemente legato alla retorica dell’antifascismo militante e della “Costituzione più bella del mondo”. Con una simile zavorra difficile che possa aprirsi a ipotesi politiche e programmatiche più aderenti alla realtà del paese».

Renzi e Calenda hanno fallito clamorosamente alle europee: la prospettiva di un partito liberaldemocratico è tramontata?
«Il teatrino dei personalismi, di cui non si dirà mai abbastanza male, nasconde la pressione delle “estreme” – di sinistra e di destra – su ogni ipotesi liberaldemocratica e riformista. Oggi destra e sinistra sembrano più attente a non perdere pezzi sulle loro ali, che non a irrobustire al centro le proprie constituency. E perciò, se sulla carta lo spazio centrista sembra ampio e meno presidiato di quanto non fosse ai tempi di Berlusconi, in realtà leader come Renzi e Calenda faticano a organizzare quello spazio. Oppure (Renzi) cercano di entrare in uno dei poli per condizionarne la linea politica».

Renzi può riuscire dove ha fallito Craxi?
«Difficile. Dopotutto, Renzi è un intelligente boy scout di estrazione cattolica, non ha il piglio caratteriale, né la cultura politica, né le radici elettorali di Ghino di Tacco. Per abbatterlo, sono bastati gli odiatori postcomunisti e grillini, oltre che la procura di Firenze. Per abbattere Craxi, fu necessario mandare in rovina l’intera prima Repubblica».

Nel 2016 è stata scritta la parola fine sulle riforme istituzionali o c’è ancora una possibilità di cambiamento?
«Nel quadro di un rapporto precocemente viziato (lontananza, sfiducia, utilità strumentale) tra elettori ed eletti, tra paese reale e paese legale, gli italiani hanno spesso bocciato le riforme di sistema. Ultime quella del centrodestra e la Boschi-Renzi. Ma hanno anche dato il proprio consenso al divorzio e all’aborto, alla fine del punto unico di contingenza, alla fine delle preferenze. Attenzione cioè a parlare di un paese immobile, di un paese attaccato come una cozza allo status quo».

E adesso?
«Se fossero spogliate delle dosi da cavallo di ideologia nelle quali sono avvolte, se ci fosse una discussione critica e non demagogica, riforme come il premierato, la separazione delle carriere, un nuovo regime fiscale, la stessa autonomia differenziata troverebbero il favore della maggioranza del paese o comunque di parti significative del paese. Il problema (il problema dei riformisti), tuttavia, è come raggiungere questo paese, l’Italia dei giovani, degli spiriti animali, degli ambiziosi, dei “bravi”, dei competenti».

Operazione non facile, oggi.
«Nella prima Repubblica, c’erano partiti che gestivano l’elettorato (e si poteva scalarli) e governi che avevano leve di potere rilevanti. Oggi i partiti non ci sono più e i governi hanno briciole di potere a disposizione. I giochi sembrano fatti e lo spazio per innovazioni politiche appare ridotto al lumicino. Ma l’Italia c’è. C’è un paese in attesa. E, tutto sommato, disponibile. Quante volte questo paese, nel bene e nel male, ha puntato sul “nuovo”?».

Talvolta, con scelte elettorali assai opinabili…
«Ma ha avuto il coraggio di mischiare le carte. Ci ha provato. Siamo davvero sicuri che un paese che ha puntato di volta in volta su Berlusconi e Renzi, su Bossi e Fini, su Grillo e Meloni possa accontentarsi quell’attuale bipolarismo? Di questo bipolarismo farlocco?».

Lei come si risponde?
«In un’Italia piena di cerotti, esiste anche la pigrizia e lo sconforto, tra le motivazioni di chi va (o non va) a votare. Ma esiste, non di meno, una tendenza a voltare pagina, una disponibilità verso le invenzioni politiche, una voglia di facce nuove, che più volte si è manifestata dal tardo Novecento in avanti. L’elettorato italiano è governato dai suoi zoccoli duri, è assottigliato dal comprensibile astensionismo dei delusi, ma è anche un elettorato mobile, post-ideologico, senza tessere in tasca, anzi volatile. L’ha dimostrato più volte (nel bene e nel male, ripeto)».

I riformisti possono convincere gli scettici?
«Una proposta riformista avrà bisogno di tempo. Ma credo che gli scettici siano molti, intere praterie. E siano un terreno fertile. Un terreno disponibile. Del resto, esistono altre strade? Ammettiamo pure che Renzi abbia ragione, scommettendo sul campo largo e sulla fine anticipata della legislatura. Ma poi, il suo campo largo, che se ne farebbe di una vittoria elettorale?».

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