L'intervista
Paolo Mieli e quei riformisti irrinunciabili: “Nel mondo nuovo diviso in due, centrosinistra contro Occidente”
Paolo Mieli, storico e giornalista, da anni editorialista del Corriere della Sera di cui è stato a lungo anche direttore, guarda oltre alla cronaca di questi giorni per definire il centrosinistra che c’è e quello che dovrebbe esserci. Ma non saranno i due appuntamenti incrociati di questa settimana, l’assemblea annuale di Libertà Eguale a Orvieto e il convegno dei cattolici democratici di Milano, a fare chiarezza sul futuro dell’area.
Il suo editoriale sul Corriere, ieri, ha promosso un dibattito e richiesto un approfondimento. «Il centro, ove mai si riesca a ristrutturare un’area riformista, non si fa così. Non si calano dall’alto, con dei videocollegamenti, idee e candidature. Libertà Eguale porta avanti da venticinque anni i suoi appuntamenti, con un senso ormai più culturale che politico. Ma il centro del centrosinistra rimane presidiato in modo attivo da due gruppi tra loro antagonisti, quello di Renzi e di Calenda: oggi è un terreno di difficile praticabilità».
Quella dei centristi, dei riformisti e dei liberali sarebbe terra di conquista ideale per il centrosinistra…
«In realtà è un terreno su cui il centrodestra sta dilagando mentre il centrosinistra è chiuso in una sua fortezza, sembra non calcolare che esista un elettorato ampio non appagato dall’offerta Avs-Pd-M5S. In questo momento il Pd di Elly Schlein manca di rispondere a quest’offerta, anche quando mette in campo personalità riformiste, sono subalterne…»
Gentiloni, Guerini sono subalterni?
«Sì, in questo momento sì. Si trovano in una condizione subalterna a una maggioranza interna che va da un’altra parte. Essere subalterni non significa essere poco autorevoli: Gentiloni e Guerini sono autorevolissimi, ma in questo Pd marginali. Anche Mario Draghi, se per assurdo domani prendesse la tessera del Pd, sarebbe subalterno e marginale».
Chi comanda davvero, nel centrosinistra?
«Il centro decisionale – ammesso che ce ne sia uno – è nelle mani di un gruppo di gauche-gauche, che si riflette in una parte di mondo imprenditoriale, accademico, editoriale, culturale a sinistra della Schlein. Coincidendo in parte con Avs, con l’ex Sinistra e Libertà…»
E quindi i salvatori della patria riformista, i Gentiloni, i Ruffini, i Gabrielli?
«Sono delle autorevoli e simpatiche personalità che si mettono a disposizione di una cosa che però ha la sua sala comando altrove».
Velleitari, dunque?
«Il mondo va a pendolo, il potere prima o poi tornerà dalle parti della sinistra e tra dieci anni – quando credo che il potere possa tornare da quella parte – potranno avere l’occasione per promuovere, più che loro stessi, delle nuove classi dirigenti».
Ci vuole una visione di ampio respiro, per chiamare a una battaglia politico-culturale importante…
«Sì, oggi il mondo è cambiato e sta cambiando radicalmente. Ci sarà sempre di più da fare una scelta di campo. Se il campo occidentale, o quel che ne resta, indipendentemente da chi sta vincendo le elezioni nel mondo – oggi prevalentemente i partiti di destra – o quello che loro chiamano Sud del Mondo, che ha un insieme più compatto e omogeneo, con la Russia, l’Iran, la Cina, il mondo dei Brics. Il mondo si sta ridividendo in una maniera inedita. In questa nuova divisione del mondo c’è da scegliere una collocazione. La scelta naturale della cabina di regia della sinistra italiana – sospinta da artisti, attori, intellettuali, dalla Chiesa stessa – li porta a stare con il Sud del mondo».
Tornano a ripetere un errore già visto, nella storia. La scelta del campo sbagliato.
«Un errore già compiuto, certo. Dopo l’errore degli anni Ottanta, la sinistra ha dovuto attendere quindici anni per avere una classe dirigente capace di andare al governo. Ci sono dei momenti storici in cui la sinistra sa stare al mondo, altri in cui si ritira su posizioni radicali. Anche Togliatti seppe fare dei compromessi, parlare con i fascisti. Oggi siamo nella risacca, con un problema di collocazione nel nuovo mondo in cui tutti ci troviamo a dover dire con chiarezza da che parte stare».
Tra le scivolate e le ambiguità del centrosinistra c’è anche quella verso Israele, con il conseguente ritorno dell’antisemitismo a sinistra…
«È evidente. Faccio una premessa: ho condannato gli eccessi di Israele a Gaza, l’ho scritto in ogni occasione. Detto questo, è evidente che c’è un problema se al sindaco di Bologna, Matteo Lepore, non viene in mente di esporre la bandiera israeliana dopo il 7 ottobre ma espone quella palestinese dopo i fatti di Gaza. Tra i nemici di Israele ci sono i paesi che hanno nel loro Dna la distruzione totale di Israele. Non si possono avere dubbi sullo stare con Israele o contro. Sull’Ucraina, difesa dagli Usa e invasa dai russi, hanno dei dubbi. Ogni volta che si propone la dicotomia Occidente – Sud del mondo, vanno in crisi. Ma finiscono per scegliere il Sud del mondo».
Perfino i satelliti sono diventati pericolosi, a quanto pare.
«Per ora. Ma non durerà. Perché le battaglie della sinistra hanno sempre la loro durata. Oggi si riabilita Bettino Craxi, sono tutti lì a scrivere che si è sbagliato nel dargli addosso. Si sta già iniziando a rivalutare Berlusconi, non manca molto. Tra vent’anni si riabiliterà Elon Musk, ne sono sicuro. Ho pensato perfino di scrivere un libro da consegnare al mio editore, Rizzoli, perché lo faccia uscire nel 2050. Ci metterei tutte le figure su cui sono sicuro che il centrosinistra farà ammenda, tutti i ripensamenti che avranno da qui a venticinque anni. Sono piuttosto sicuro di conoscerli bene, da elettore del centrosinistra quale sono».
E conoscendoli, da storico, quale errore imputeresti loro adesso, oltre all’ambiguità sulla scelta di campo?
«L’assenza di una strategia, di una grande visione. Galleggiano, inseguono ogni giorno quel che possono: un giorno il caso Giambruno, l’altro il caso Albania, poi il caso Boccia, poi il caso Elon Musk, come se fossero cose tutte uguali. E invece sono tutte battaglie deboli, inseguite a fatica. Inadeguati al cambiamento dei tempi, alla ricerca spasmodica di un nemico del giorno. Come se contasse di più unirsi davanti a un nemico che unirsi per qualcosa. Lo trovo sbagliato nel metodo, segna una incapacità di interloquire con le forme in cui si presenta la modernità».
Non credi alla capacità della sinistra di autoriformarsi?
«Se concedesse che una parte di sé, minoritaria, iniziasse a guidare un processo di rinnovamento, come fu per i socialdemocratici tedeschi con Bad Godesberg, sarebbe possibile. Ma non lo vedo. La Margherita fu formata dall’alto in un momento in cui esistevano ancora i resti dei partiti di centro, che oggi non esistono più. Penso invece che debba nascere una formazione autonoma dalla sinistra, che tenga il punto e che al momento del voto politico sappia tenersi ben distinta. Vedo una formazione liberal-riformista che viva autonomamente, con valori suoi contrapposti a quelli della destra e della sinistra. E con un ancoraggio fermo al Nord del mondo. Una operazione possibile e necessaria».
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