La nuova legge elettorale
Paolo Mieli propone la legge proporzionale, diciamo sì per tenerci stretto Draghi
In un suo recente editoriale Paolo Mieli ha criticato le ragioni di chi oggi auspica una legge proporzionale per le prossime elezioni politiche. Mieli ha riconosciuto le buone intenzioni dei proponenti «tra i quali molti che furono ultras del maggioritario, diventati ora combattivi proporzionalisti, sono davvero animati dalla preoccupazione che un assetto governativo diverso da quello attuale precipiti l’Italia in un caos». Ci siamo in qualche misura riconosciuti in questo riferimento anche perché siamo stati forse i primi a sollecitare pubblicamente l’urgenza di abbandonare il Rosatellum prima che produca nuovi effetti disastrosi per l’Italia.
In questi brevi mesi di governo Draghi abbiamo assistito al miracolo di un paese che da anello debole dell’Unione europea, esposto alle folate populiste filo cinesi o pro venezuelane da un lato, a quelle sovraniste trumpiane, filoputiniane e orbaniane dall’altro, ha acquisito una autorevolezza e una credibilità europea e internazionale inimmaginabile in precedenza, con le conseguenze benefiche sull’economia che tutti, ci pare, riconoscono.
Viste le considerazioni di Mieli vorremmo in breve aggiungere qualche elemento di discussione. Scrive Mieli che occorre fare distinzione «fra lo stato in cui versano centrodestra e centrosinistra», sul presupposto che il M5S abbia ormai perduto le sue connotazioni originarie e sia divenuto praticamente irrilevante in un centrosinistra egemonizzato dal Pd. Può, essere, anche se è lecito dubitare della passiva accettazione del M5S di questa subordinazione di fatto (il presidente Conte ne pare assai consapevole), ma in ogni caso a noi pare che le stesse posizioni del Pd siano spesso contrastanti con quelle del presidente del consiglio Draghi, e che si muovano più tradizionalmente sul piano inclinato della stagnazione senza riforme strutturali che ha caratterizzato tutti i governi, quale più quale meno, della “seconda Repubblica”. Da almeno un ventennio abbiamo infatti una crescita quasi pari a zero del Pil, della produttività (e dei salari) con conseguente insostenibilità del debito pubblico (nonostante – o a concausa – delle robuste iniezioni pseudo keynesiane). Ma questa è materia di valutazione politica, e non ci addentriamo nell’analisi.
A Mieli sembra che ciò basti a sconfiggere il destracentro (chiamiamolo col suo nome) e impedire una rovinosa (secondo noi e forse lo stesso Mieli) scivolata verso la democrazia illiberale degli omologhi politici (fra cui i governi ungherese e polacco) della coppia Salvini-Meloni. I sondaggi del Corriere parrebbero tuttavia indicare il contrario di quel che spera Mieli e Berlusconi ne può dare testimonianza, impegnato com’è (fra contrasti interni a Forza Italia) a “civilizzare i barbari” in vista di un futuro successo. La seconda obiezione la condividiamo: non bisognerebbe cambiare a ogni legislatura la legge elettorale, peggiorandola ogni volta, in funzione degli esiti auspicati dalla temporanea maggioranza. Giustissimo. Purtroppo ciò comporterebbe oggi di accettare come definitiva la peggiore legge elettorale possibile. È una legge che elegge proporzionalmente i due terzi dei parlamentari e solo un terzo su base uninominale, fondendo così i lati peggiori di un sistema e dell’altro.
È davvero una caricatura del bipolarismo. Il Rosatellum fa pensare i partiti in modo proporzionale ma li costringe a coalizioni litigiose basate solo sull’interesse elettorale, nonostante visioni incompatibili su temi fondamentali, e così facendo ha spinto le coalizioni stesse verso le ali estreme. E si arriva al terzo punto, quello decisivo: il sistema proporzionale escluderebbe gli elettori dalla scelta di chi governa determinando soltanto gli equilibri fra i partiti e aggravando la disaffezione per la politica e l’astensionismo, osserva Mieli. Sono critiche che noi abbiamo sempre mosso al proporzionale, aggiungendone altre forse più pesanti sulle conseguenze economiche e anche etiche. Non abbiamo cambiato opinione, ma certamente non è stato il Rosatellum a garantire il rispetto del voto degli elettori, che al contrario sono stati ingannati da illusorie coalizioni di partiti che dal giorno successivo al voto li hanno presi per il naso dando vita ai governi degli opposti.
Ma tornando sulla terra dai cieli dei sistemi elettorali oggi la scelta fra centrosinistra e destracentro, fatti tutti i distinguo, imporrebbe una sciagurata e preventiva rinuncia a ciò che grazie al governo Draghi è apparso utile e necessario per l’Italia. Ciò rafforzerebbe i partiti nel loro rapporto coi cittadini? Ci permettiamo di dubitarne: oggi in Italia, e solo in Italia, nessun partito fra quelli rappresentati in Parlamento (con l’eccezione di +Europa) consente di eleggere leader e vertici in congressi aperti al confronto interno e a data fissa. È la struttura oligarchica e non democratica dei partiti italiani ad allontanare da sé gli elettori. Ed eccoci all’ultimo punto: si parla da decenni di riforme costituzionali, alcune sono state approvate a maggioranza ristretta contro una larga minoranza del Parlamento, e le più importanti, riguardanti l’assetto dello Stato e dei suoi poteri, sono state respinte dagli elettori. Se la prossima legislatura fosse eletta, per questa sola volta, col sistema proporzionale, cadrebbe ogni alibi per non trasformarla anche in legislatura costituente, con due precisi fondamentali obiettivi.
Da una parte, riformare finalmente il sistema istituzionale: bicameralismo, forma di governo, titolo V, giustizia, stato di diritto e, non ultima, la legge elettorale. A nostro parere la legge elettorale più confacente all’Italia è l’uninominale a doppio turno (il da tutti evocato, nei giorni festivi, sistema francese) in quanto capace di valorizzare e rendere decisivo il voto dell’elettorato meno attratto da estremismi e populismi. Questo avrebbe un benefico effetto anche sul sistema dei partiti, meno indotti da una parte a cavalcare la tigre identitaria o protestataria anche nella scelta dei programmi e nella selezione delle candidature, dall’altra spinti a ristrutturarsi in funzione di una effettiva rappresentanza della sovranità popolare.
Ma per quanto riguarda questo secondo aspetto, c’è soprattutto bisogno che la cultura di governo di Draghi, con il suo riformismo ragionevole e determinato, dispieghi i suoi effetti, sconfiggendo populismo e sovranismo, giustizialismo e antipolitica, i mali vecchi o nuovi che affliggono in particolare il nostro Paese. Solo per questa strada, lastricata di vere riforme, sarà possibile una ristrutturazione del sistema dei partiti. Nulla è scontato certo, è tutta materia di confronto e iniziativa politica. Ma se nei prossimi anni il piano di risanamento della Repubblica non procedesse nei tempi e nei modi necessari niente di tutto questo sarebbe neppure immaginabile. È possibile senza la guida di Draghi?
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