“Il fatto non sussiste”. Ci risiamo, vien da dire. Un altro processo che non avrebbe dovuto neanche iniziare. Dopo Eni, dopo Mps, è la volta di Banca Etruria, con quattordici imputati assolti nel filone che, nella propaganda moralistica in salsa grillina, veniva chiamato processo delle “consulenze d’oro”. Non dovremmo neanche dirlo, perché il fatto è stato usato in chiave scandalistica ai tempi dell’inchiesta, ma tra gli imputati oggi assolti c’è pure Pierluigi Boschi, il padre di Maria Elena. La quale affida il suo pianto di gioia a Facebook, ma di cui ricordiamo la voce rotta mentre in Parlamento, da ministra del governo Renzi, fu chiamata in una schifosa gogna istituzionale, a giustificare quella parentela e a render conto di comportamenti del tutto legittimi. Nel frattempo suo padre è già stato assolto dall’accusa più grave, la bancarotta fraudolenta. Ma restava ancora aperto il filone d’inchiesta che si è appena concluso.

Bancarotta colposa, era l’imputazione elevata ai quattordici ieri assolti, dal pool coordinato dal procuratore capo Roberto Rossi. Il quale, come di consueto fanno i rappresentanti dell’accusa quando perdono un processo, sta già pensando a ricorrere in appello. Del resto la legge lo consente nell’anomalia tutta italiana, e a maggior ragione dopo che la Corte Costituzionale ha bocciato la “riforma Pecorella” che rendeva definitiva la sentenza assolutoria di primo grado. Naturalmente il pudore impone che prima si leggano le motivazioni con cui la giudice di Arezzo Ada Grignani ha respinto le richieste di condanna della Procura e stabilito che in tutti questi anni, a partire dal 2015, sono state svolte attività investigative inutili e costose, potremmo dire “d’oro”, parafrasando il titolo dato all’inchiesta. Le parole dell’avvocato Luca Fanfani, difensore di uno degli imputati, il vicedirettore generale dell’Istituto, Emanuele Ceccaro, spazzano via ogni ambiguità nella ricostruzione dei fatti, per come è andata. È andata così: “…nel momento in cui Banca d’Italia nel dicembre 2013 impone a Banca Etruria di trovare altro istituto con cui fondersi, la obbliga, va da sé, ad accollarsi ingenti spese per advisor legali finanziari e industriali, esattamente le spese contestate dalla procura. Una conclusione ovvia per un processo largamente inutile”.

Liscio come l’olio, direbbero i nostri nonni. Ma siamo nel 2022, e, pur se abbiamo perso i referendum sulla giustizia, ci stiamo finalmente liberando di quella cappa moralistica dell’ “uno vale uno” che è partita, prima ancora che nei comizi di Beppe Grillo, negli uffici di certe Procure. Come non prendere di mira, quindi, quelle consulenze che erano state affidate da Banca Etruria a una serie di advisor, nel momento in cui Banca d’Italia aveva imposto la fusione con un istituto di elevato standing, che venne individuato con la Banca Popolare di Vicenza? Un’operazione fallimentare e che non andrà in porto, purtroppo. Ma gli antichi ci hanno insegnato che il lavoro va retribuito e le professionalità valorizzate. Fuori dal mondo dove “uno vale uno”, cioè probabilmente tutti quanti valgono poco, naturalmente. Quindi gli incarichi affidati, tra giugno e ottobre 2014, a grandi società come Mediobanca, oltre che a studi legali di Milano Roma e Torino considerati i più competenti nel settore, costarono circa quattro milioni di euro. Una cifra consistente? Certo. Tanto quanto ingente e delicato immaginiamo sia stato l’impegno dei professionisti che si dedicarono a quegli incarichi.

La procura di Arezzo l’ha pensata diversamente. I vertici di Banca Etruria avrebbero tenuto un comportamento imprudente e non avrebbero vigilato a sufficienza sui contenuti delle consulenze, ritenute in gran parte “inutili” e “ripetitive”. Qui entriamo nel regno dell’assurdo, in quel filone ormai palese a tutti di quanto pericoloso, anche per la democrazia, sia questo eccesso di giurisdizione che ha avuto, nell’arco di trent’anni, la Procura di Milano come capofila e guida. E le cui ultime inchieste, i grandi scandali, mattoncino dopo mattoncino, sono state demolite dai giudici e dai tribunali. Con il paradosso del caso dell’ultimo procuratore emblema del “rito ambrosiano”, Francesco Greco, una volta sospettato di inerzia, nel caso della Loggia Ungheria, ma poi di una sorta di “accanimento assolutorio”, in polemica con la procura generale sul nuovo corso di Mps, quello voluto dal Presidente del consiglio Matteo Renzi. Ma al contempo accusato di un vero accanimento rispetto ai vertici di Eni. Quel che colpisce è che mai nessuno abbia riconosciuto al capo della Procura più conosciuta d’Italia quella mitica “cultura della giurisdizione” continuamente invocata dai vertici del sindacato dei magistrati, nonché alcuni prestigiosi ex procuratori, nell’argomentare la propria contrarietà alla separazione delle carriere. Persino delle funzioni.

La celebrazione di tanti processi inutili, che vengono liquidati da un’ora di camera di consiglio, tanto sono semplici le conclusioni che rispecchiano qualcosa di palese fin da subito, è proprio la conferma della debole “cultura della giurisdizione” dei pubblici ministeri. Soprattutto quelli che avviano indagini clamorose che coinvolgono personaggi politici o del mondo economico, finanziario e bancario. È successo ieri agli ex dirigenti di Banca Etruria, è la storia che ha coinvolto per due anni il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, e capiterà ancora. A meno che. Reggerà, ci domandiamo, quella parte della riforma della ministra Cartabia che impone la ragionevole previsione di condanna come presupposto di ogni richiesta e poi rinvio a giudizio? È una bella scommessa. Anche perché difficilmente la forma delle regole processuali, che deve essere necessariamente fredda come un cubetto di ghiaccio, trova poi riscontro nella concretezza di ogni caso quotidiano.

Avranno quindi la forza di resistere al clamore mediatico i magistrati che saranno chiamati ad applicare quella norma? E i politici? Nei casi della vita, specialmente i più spinosi, come quello che ha investito non certo di striscio ma direttamente e in modo impetuoso Maria Elena Boschi, spesso si finisce per dimenticare magari anche quel che si è appena approvato in commissione, alla Camera o al Senato. Si dimenticano i codici e anche il garantismo. Non è strano che nella giornata di ieri, proprio mentre al Senato sono in discussione le norme di riforma del processo penale proposte dalla ministra Cartabia, le agenzie di stampa sfornassero le solidarietà nei confronti dell’ex ministra Boschi che portavano le firme solo dei suoi amici? Lasciamo perdere il capo del Movimento cinque stelle Marco Travaglio che, alla notizia delle assoluzioni supponiamo stia organizzando l’ennesimo suicidio di massa della redazione del Fatto quotidiano.

Ma è mai possibile che, dopo quanto ha sofferto in questi sette anni e dopo che ha avuto il coraggio di dichiarare il proprio pianto, al fianco di Maria Elena Boschi troviamo solo Renzi, Marcucci, Nardella e pochi altri, cioè i suoi amici? Dovrebbero esserci 625 deputati. Se è vero, come noi pochi (ma buoni) pensiamo, che il vento del garantismo comincia a spirare, vogliamo deciderci a batterci per i diritti degli altri, compresi, anzi prima di tutto, quelli che detestiamo politicamente? Aspettiamo quindi la fila di quelli che chiedono scusa, guidata da Luigi Di Maio (l’unico coraggioso finora), ma anche da quelli della sinistra che “le riforme si fanno in Parlamento, non con i referendum”. Quante volte sentiremo Enrico Letta dire che un certo processo non si doveva neanche cominciare? Magari nei confronti di Silvio Berlusconi o Matteo Salvini. O anche, con la gogna, contro Maria Elena Boschi. Perché in ogni caso le lacrime dovevate asciugargliele prima, cari compagnucci.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.