E dunque anche Giuliano Ferrara – che condusse per mano tanti non credenti come me a scoprire la bellezza e la profondità del pensiero di Joseph Ratzinger – ha capitolato di fronte alla melassa dilagante dei commenti successivi alla morte di Francesco, dominati da quel Titolo Unico («Il Papa degli ultimi») scannerizzato in serie dai giornali italiani. Sia pure premettendo che «esigere una vita innocente è il male di quest’epoca», il nostro adorato ateo devoto ci ha detto ieri che il piacionismo dell’«umanesimo cristiano» di Bergoglio ha rappresentato «un’ambizione forte», una «testimonianza estrema».

Io non sono certo in grado di sminuire o negare la portata di un impianto così audace e potente. Semplicemente, da umile lavoratore nella vigna del mondo scristianizzato, mi chiedo se questa postura generale del pontificato di Bergoglio non abbia favorito, avallato, quanto non esaltato il populismo, che rappresenta – esso sì – il male più insidioso della nostra epoca.

Fin dal suo apparire sulla scena globale, Francesco ha diffuso di sé l’immagine del «parroco del mondo», vicino alla gente, lontano dalle aristocrazie ecclesiastiche, dalle liturgie sontuose, dai giochi di potere. ​Un approccio certamente animato dalla sincera volontà di avvicinare la Chiesa ai fedeli, ma che ha alimentato una retorica che banalizza la profondità del messaggio cristiano (almeno per come lo percepisco io). ​Una sorta di «teologia del popolo», centrale nel suo pensiero, nella sua prossemica, nella sua comunicazione, capace di bucare la rete globale, ma condannata a privilegiare l’emotività e il consenso immediato, senza contrastare, anzi finendo per esaltare la secolarizzazione in marcia.

Ma non è proprio questo il brodo di coltura del populismo contemporaneo, fatto di banali semplificazioni, di contrapposizioni odiose tra «noi» e «loro»? In questo senso il papato di Francesco, con la sua ossessiva insistenza sulle «periferie» e sugli «ultimi», sulla creazione artefatta di nemici, fossero i capitalisti feroci o i politici guerrafondai, non ha fatto altro che legittimare una polarizzazione politicamente molto dannosa, accrescendo a dismisura quella critica alle élites che sta delegittimando ogni forma di autorità, di competenze e di governance del mondo disordinato che abitiamo. ​

In epoca di populismo dilagante la Chiesa avrebbe potuto – e potrebbe – rappresentare un baluardo di equilibrio e profondità, offrendo al mondo una visione che trascende le semplificazioni, e invita alla complessità, alla riflessione, alla ricerca della verità. Bergoglio non ha dato un gran contributo a queste cause, proprio in quanto ha scelto la strada della colloquialità e di quella «dolcezza» che – come Giuliano stesso sottolinea – banalizza e omologa ogni cosa. E allora rendiamo pure stancamente omaggio alla testimonianza di «umanesimo cristiano» fornita da Francesco. Ma si sappia che il mondo contemporaneo avrebbe bisogno, oggi più che mai, di una Chiesa capace di coniugare vicinanza e profondità, popolarità e rigore, senza cedere alle semplificazioni.