Nel 1943, quando uscì in Italia, Bergoglio aveva sette anni. “I Bambini ci guardano” di Vittorio De Sica è stato certamente uno dei film che maggiormente ha influenzato Papa Francesco nella sua formazione. Non è dato sapere a che età precisa lo vide, ma il suo riferimento al “dopoguerra” lascia intendere che Papa Francesco ebbe un’esperienza simile a quella di Martin Scorsese, che racconta di essere stato portato bambino dal padre, italoamericano, a vedere quei capolavori quando arrivavano alla spicciolata nelle sale di nicchia del Nord Est americano.
Del resto quando Vittorio De Sica lo realizzò, la guerra non era ancora finita e l’Argentina manteneva una neutralità tra i belligeranti che le permise di realizzare un vero e proprio miracolo economico: nessuno sforzo bellico, libertà di produrre carne e grano per l’esportazione. Papa Francesco vide insomma “I bambini ci guardano” in un’età quasi felice per il suo Paese quanto per lui formativa. L’impressione deve essere stata forte se ancora adesso lo cita con toni quasi appassionati. “Quei film ci hanno formato il cuore”, dice oggi a indicare tutto il Neoralismo che, sotto le bombe di San Lorenzo, iniziava a delinearsi nella mente del suo principale esponente. Non è un caso che De Sica ricordasse di aver letto il racconto da cui è tratto il soggetto, “Prico’”, pubblicato nel 1928, “in un periodo in cui ero veramente stanco di una certa formula da ‘telefoni bianchi’ o di cinema romantico, vecchio, antiquato. Ero impaziente che l’obiettivo andasse più vicino agli uomini”.
Ecco cos’era il Neorealismo: addio “Signor Max” e mille lire al mese. La guerra ha cambiato la percezione della gerarchia dei problemi. Bisogna tirare su le maniche, e affrontare il mondo così com’è, tutto il resto è una favola bella che illuse ed illude. Ci si avvicina agli esseri umani, proprio come Francesco quando chiede ai suoi pastori di avere addosso l’odore del gregge. Sempre De Sica decise di non comparire in quel film: fino ad allora era stato spesso il protagonista delle sue storia, con quell’aria da ragazzo scanzonato, per niente stupido, forse un po’ leggero nell’affrontare la vita.
Con la storia di Prico’ spariscono telefoni bianchi e lustrini, e quella Roma pariolina dove abitavano Pietro Badoglio e Galeazzo Ciano dove in fondo prosperavano gli Indifferenti di Moravia. Il ragazzo (perchè bambino smettere di esserlo presto) vive nei quartieri popolari e subisce la tragedia del dissolvimento della famiglia. Quel che è peggio, non riesce a trovare in nessuno degli ambienti che lo ospitano un briciolo di umanità da parte degli adulti. Il dramma borghese diviene dramma popolano, ma la sostanza è sempre quella. Gli indifferenti questa volta sono i parenti che stanno in campagna, le lavoranti di una sartoria. Una vicenda che graffia l’anima come una raspa, in cui la vittima passa da un girone infernale all’altro. È gia’ “Sciuscia’”, ma è anche “Umberto D”. Al tempo stesso è una chiamata al senso di responsabilità: ogni azione compiuta è importante per un altro. Forse è questo che piacque tanto a Bergoglio.