L'allarme lanciato dagli esperti
Papà italiani più vecchi d’Europa ‘grazie’ a precarietà e salari bassi: perché ritardare la paternità è un problema
I papà italiani sono tra i più vecchi d’Europa. E’ quanto emerge da una ricerca dell’Istat che fotografa come meglio non poteva uno dei problemi principali del nostro paese. Nel giro di tre decenni l’età in cui un uomo diventa genitore si è spostata di ben dieci anni: dai circa 25 anni alla fine degli anni ’90 ai 36 attuali.
Un ritardo dovuto a tanti fattori, in primis alla precarietà del lavoro che spesso paralizza quelli che l’ex ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa nel 2009 definì “bamboccioni“, ovvero ragazzi di età compresa tra i 20 e i 30 anni considerati “pigri” e troppo legati alle famiglie di origini, che preferiscono restare a casa coccolati da mamma e papà anziché trovare una propria indipendenza (non solo economica). I più recenti dati Istat indicano dunque in Italia si diventa papà mediamente a 35,8 anni, mentre in Francia a 33,9 anni, in Germania a 33,2, in Inghilterra e Galles a 33,7 anni.
Una ‘tradizione’ sempre più frequente rispetto al passato che riguarderebbe circa il 70% dei nuovi papà italiani: questo significa che un uomo su 3 è ancora senza figli oltre i 36 anni d’età. A cristallizzare la situazione, alla vigila della Festa del papà del 19 marzo, sono gli esperti della Società italiana di andrologia (SIA) che ricordano l’importanza di anticipare la paternità e, dove non possibile, di preservare la fertilità fin da giovani, soprattutto attraverso un sano stile di vita.
Perché ritardare la paternità può essere un serio problema
La tendenza a ritardare la paternità, ricordano gli andrologi, non è priva di conseguenze: numerose evidenze scientifiche dimostrano che le caratteristiche funzionali dello spermatozoo, cioè motilità, morfologia e anche i danni al Dna, peggiorano con l’aumentare dell’età. Bisogna inoltre considerare che con l’avanzare dell’età aumenta il tempo di esposizione agli inquinanti ambientati esterni, come le microplastiche che negli ultimi anni hanno dimostrato essere un problema rilevante per la fertilità maschile. In più i cambiamenti climatici con l’aumento della temperatura globale hanno anch’essi un impatto negativo sulla fertilità maschile, dimostrato dalla riduzione volumetrica dei testicoli nella popolazione generale.
Alessandro Palmieri, presidente Sia e docente di Urologia all’Università Federico II di Napoli, spiega che la nostra società “sta assegnando alla riproduzione un ruolo tardivo, dimenticando che la fertilità, sia maschile che femminile, ha il suo picco massimo tra i 20 e i 30 anni e che la potenzialità fecondante del maschio è in netto declino”
Integratore per “aiutare” la fertilità
Al fine di “aiutare” la fertilità maschile, la Sia e l’Istituto di Farmacologia Clinica dell’Università degli studi di Catanzaro hanno sviluppato un nuovo integratore. Il composto è il Drolessano, un mix di 7 sostanze naturali i cui benefici sono dimostrati da una revisione di studi pubblicata sulla rivista Uro. Due di tali sostanze hanno specifici effetti sulla fertilità maschile: l’escina, estratta dai semi e dal guscio dell’ippocastano, un antiossidante utile nel preservare la fertilità ma anche per prevenire i sintomi della prostatite cronica implicata nella riduzione della fertilità, ed il licopene, presente nei pomodori, che può aumentare la qualità dello sperma e proteggere dagli effetti dei radicali liberi.
Cgil: sei mesi congedo paritario e meno retorica per risollevare natalità
“Nel giorno dell’iper-tradizionale Festa del Papà, la narrazione di un Governo che utilizza il tema della natalità e della famiglia come principale strumento di propaganda – e di distrazione – stride ancor più fortemente con la volontà di mantenere immutata la situazione, se non il tentativo di riportare indietro le lancette della storia. Meno retorica: l’inverno demografico non può essere affrontato con bonus o interventi spot, ma con politiche forti e coerenti. Si cominci con sei mesi di congedo obbligatorio paritario”. È quanto dichiara la segretaria confederale della Cgil Daniela Barbaresi. Per la dirigente sindacale “il Governo appare poco propenso a incidere realmente sulle cause per le quali le famiglie Italiane fanno meno figlie e figli di quanto desidererebbero. Il lavoro precario che diventa sempre più precario, i salari sempre meno in grado di garantire un tenore di vita dignitoso, la rinuncia alla creazione di posti nido in numero tale da raggiungere i livelli di copertura previsti (e finanziati dal PNRR), sono solo alcune delle certificazioni di una propaganda slegata da qualunque misura reale ed efficace”.
“La natalità in Italia è sempre più in picchiata, con il nuovo record negativo certificato dall’Istat di 393 mila nati nel 2022, ovvero un terzo in meno dei bimbi che nascevano quindici anni fa. Numeri di una vera e propria emergenza demografica – sottolinea Barbaresi – che richiede misure e politiche integrate e strutturali che riguardano congedi ben remunerati e paritari, servizi di cura e servizi educativi per la prima infanzia, universali e gratuiti (mentre oggi i posti negli asili nido sono garantiti solo a un bambino su quattro) e scuole a tempo pieno, soprattutto per garantire pari opportunità e contrastare la povertà educativa e, naturalmente, occupazione, orari, retribuzioni, stabilità e qualità del lavoro”. “Quando due anni fa con il D.Lgs n. 105/2022 venne data attuazione alla Direttiva UE 2019/1158 e ampliato il congedo di paternità obbligatorio portando l’astensione dal lavoro a dieci giorni, – ricorda la segretaria confederale della Cgil – abbiamo valutato positivamente quella scelta in quanto andava nella giusta direzione, ma del tutto insufficiente, così come abbiamo considerato debole l’obbligo del congedo di paternità con vincoli così minimali rispetto al congedo obbligatorio di maternità”. “I dati oggi indicano che cresce il numero di padri che ne fruiscono, ma la maggioranza di governo si guarda bene dall’aumentare il numero di quei giorni e lascia alle opposizioni la presentazione di proposte che vadano nel senso della parificazione dei congedi, unico modo per incidere su una cultura stantia che relega la parte femminile del rapporto a ruoli solo maternali”. “Da tempo la Cgil evidenzia la necessità di un congedo obbligatorio paritario di sei mesi – ribadisce in conclusione Barbaresi – considerandolo determinante per realizzare l’obiettivo di un’equa condivisione delle responsabilità familiari e del lavoro di cura, nella prospettiva di un’autentica parità di genere: la via da seguire in controtendenza con le scelte di un Esecutivo che si concentra solo (e male) sulla maternità e non sulla genitorialità”.
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