“Per vincere partite bisogna fare più gol”. E grazie, Vujadin Boskov, per ricordarcelo. Che a rincorrere i dogmi, le supercazzole, i teoremi si perde di vista la logica: a pallone vince chi fa un gol in più, chi ne prende uno in meno dell’avversario. A sentire certi commenti sembra però che la Juventus sia in balia della crisi più buia. E che contro l’Atalanta, sabato scorso, è come se avesse perso. Certo: per lunghi tratti della gara i bianconeri non hanno visto la palla. Ma com’è finita? 2 a 2. E buttalo via, soprattutto in questo momento; contro la squadra più in forma del campionato, che gioca un calcio tra i migliori in Europa.

È proprio questo il punto: la Juventus sembra incagliata in quella retorica della bellezza che ha fatto proseliti alla Continassa dalla batosta in Champions League dell’anno scorso contro l’Ajax fino all’arrivo di Maurizio Sarri in panchina. La rivoluzione del “sarrismo” – di quel gioco spettacolare e armonioso visto a Napoli e vidimato dalla Treccani – non ha però attecchito, si è ingolfata, impantanata. E intanto ci si è persi di vista i numeri: la Juventus è prima in Serie A con 76 punti; 8 in più sulla seconda Lazio; prima per gol subiti; terza per gol fatti. Tra sei giornate potrebbe festeggiare il nono titolo nazionale consecutivo. E poi giocarsi i quarti di finale di Champions contro il Lione – parte dallo svantaggio per 1 a 0 rimediato in Francia.

Le parole di commentatori, giornalisti, tifosi perfino danno però alla stagione un’aria da fallimento. Proprio come al match di sabato una sfumatura da disfatta. Anche se la Juve non ha perso. Ok, si obietterà, ma ha pareggiato con due rigori. E allora? “Rigore c’è quando arbitro dà”. Grazie ancora, Zio Vuja. E grazie a chi ricorda che i penalty, una volta dati, vanno – si diceva anni fa – trasformati. Come li ha trasformati Cristiano Ronaldo. Due anni in bianconero: 83 partite, 60 gol, 17 assist. E ancora qualcuno che gli chiede di portare la Champions a Torino, altrimenti, anche la sua campagna italiana sarà un fallimento. Nientedimeno.

E menomale che la Juventus ha sbagliato anche il mercato. Con il discontinuo Ramsey, l’impalpabile Rabiot, l’acerbo De Ligt – l’unico ad aver capito davvero la regola dei falli di mano: hai detto niente! – E allora, si osserverà ancora, la Supercoppa italiana persa con la Lazio? E la Coppa Italia con il Napoli? Due fallimenti, certo, se si ragiona come ultras che le partite, il campo, le magnifiche e progressive sorti le vedono solo attraverso i propri colori, come se gli avversari fossero solo comparse.

La Juventus ha perso due trofei, e giustamente. Come giustamente perde ogni squadra che non fa almeno meglio dei contendenti. Resta comunque a un passo dallo scudetto e in corsa in Champions con una delle rose più competitive in circolazione. Alla faccia del dispotismo della bellezza continuamente citato alla stregua di un pensiero unico. Come se il gioco potesse essere spettacolare in una maniera soltanto; come se la Juve non avesse sempre preferito il pragmatismo all’idealismo, la razionalità al donchisciottismo, il risultato al romanticismo; come se Sarri potesse tornare a fare, tale e quale, ciò che ha fatto a Napoli – non è riuscito neanche a Londra, con il Chelsea, e comunque ha vinto un’Europa League – proprio lui che aveva detto di voler tornare a lavorare in banca piuttosto che allenare come il conservatore, erroneamente detto difensivista, Pablo Simeone. Addirittura. È la cancel culture del calcio, baby. E non possiamo farci niente. Anche se “squadra che vince scudetto è squadra che ha fatto più punti”. E questa regola resta uguale nonostante la moda.

Antonio Lamorte

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