Parasite è il film del regista sud-coreano Bong Joon-ho. Ha meritatamente vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes 2019. È selezionato per rappresentare il suo Paese nella categoria per il miglior film straniero ai premi Oscar 2020. Malgrado la competizione non mi appassioni, spero che vinca affinché possa salire su una tribuna mondiale e al mondo mostrarsi con una scena che ci parla con le immagini vivide del grande cinema del nostro tempo e del dramma che ne costituisce la cifra. Parasite dà la mano a Joker, ci introduce in un altro mondo rispetto al film di Tod Phillips; i fatti lì narrati avvengono in un’altra parte del mondo, un mondo nella geografia assai lontano da quello di Joker. Eppure la loro lingua è la stessa, e lo stesso è il paradigma dei due mondi altrimenti lontani.  In entrambi i casi a essere raccontata è una società spaventosamente divisa tra l’alto e il basso, tra ricchi e poveri, tra molto ricchi e drammaticamente poveri, tra chi con nonchalance possiede tutto e coloro a cui tutto è negato. Parasite dà forza alla radicale opposizione dei due mondi costretti a un’ambigua e forzata convivenza, sotto il segno della doppiezza, fino alla sua implosione. Una società implacabilmente di classe, senza la coscienza e la lotta di classe. O se si vuole con una lotta di classe che, negandosi come tale, prende le pieghe che innervano un tessuto sociale inquinato e inquinante.

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Le persone, gli ambienti, le movenze che animano la scena ne sono permeate così a fondo che giungono fino agli odori che ne rilevano le irriducibili diversità, l’opposizione tra l’alto e il basso, tra gli abitanti dell’uno e quelli dell’altro. In realtà solo questi ultimi lasciano sentire il loro odore che, per gli altri, è una puzza al fine insopportabile, tanto da essere la scintilla dello scoppio distruttivo. Le due specie abitano in due spazi incommensurabili. I ricchi vivono in una casa protetta pervasa dal verde e dalla luce, dove tutto è messo a disposizione per essere consumato. Stanno in alto. Il sottosuolo è abitato dai poveri in una abitazione su cui un balordo può pisciare mentre loro, per i loro bisogni fisiologici, devono persino arrampicarsi. Qui tutto è instabile, precario, provvisorio.  Sono due mondi in uno che Bong Joon-ho illustra con immagini e sequenze che non consentono allo spettatore vie di fuga. Le case, i luoghi abitati, le persone che li abitano formano due popolazioni, due specie umane. I volti, i corpi parlano per loro, le parole li vestono della loro irriducibile diversità, una diversità di natura sociale che tende a farsi diversa umanità. È la casa dei ricchi a porsi al di là del territorio dove vive un’umanità dolente. È la casa del Grande Architetto, della sua visione di un futuro dell’uomo tecnologico. È una casa minimalista, così ricca da non aver bisogno di mostrare tanto. Una freccia della modernità verso il post-moderno. In essa il lusso dei padroni di casa è portato con la naturalezza di chi lo considera un dato della realtà, come fosse scontato solo perché acquisito. Scontato e inaccessibile agli altri da cui è diviso da un alto muro, concreto simbolo che rinvia a tutti i muri.

Anche il verde in cui è immersa la casa è indivisibile e anzi esaltato dalla mancanza di verde di ciò che resta fuori dal muro. Anche la natura è sotto il sequestro della grande ricchezza. Pioverà a dirotto su quelle case, un vero diluvio. La casa dei ricchi ne uscirà indenne, ma la valanga d’acqua scenderà dai piani alti ad allagare e devastare quelli bassi, sommersi dall’acqua e dalla melma. Una condizione miserabile viene affogata da un’altra devastazione. Un tempo venivano chiamati, spregiativamente, bassifondi. In Parasite esso è il luogo di una delle due umanità, avvinte in una sorda lotta di classe senza intelligenza di sé, senza coscienza. Nel buio di un siffatto conflitto, la numerosa famiglia del sottosuolo conduce la sua lotta per uscirne in un corpo a corpo con quella ricca fatta di astuzie, di camuffamenti, di imbrogli. In una furba metamorfosi riesce a fare entrare tutti i suoi componenti nel territorio dei ricchi, travestiti da servi, autisti, collaboratori di vario genere. I ricchi, che quella condizione di privilegio e di potere portata come fosse naturale, rende stupidi, ne subiscono le conseguenze senza neppure accorgersene, altro segno dell’opulenza e dell’abbondanza.  La storia potrebbe seguitare la sua corsa su questo binario, se non fosse per il sottosuolo. È lì che si annida la contraddizione. Lì si nasconde la nuda vita, la sua drammatica e non pacificabile esistenza. Lì il povero non è il solo a esserlo e divide la sua condizione con altri. Niente di più probabile che allora scoppi la guerra tra i poveri, e con la guerra, la violenza distruttrice. Ma essa, quando esplode, non può restare circoscritta al sottosuolo, buca la superficie e investe l’intera realtà, investe anche i ricchi e la loro vita. Non c’è salvezza, non c’è salvezza. Sembra la descrizione estrema di quella società, la nostra, che come ha scritto Papa Francesco, genera sistematicamente lo scarto, un intollerabile scarto di umanità. Parasite ci dice, con il linguaggio di una riuscita opera d’arte cinematografica, ciò che Marx aveva ipotizzato nel 1848 e cioè che, se la lotta di classe non avesse dato luogo a una nuova civiltà, si sarebbe prodotta la rovina di entrambe le classi in lotta, una crisi di civiltà. Di questa crisi di civiltà ci parla, emozionandoci, Parasite.

Fausto Bertinotti

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