L’ormai celebre appello “Per la giustizia e il dibattito aperto”, apparso sulla versione online di Harper’s Magazine e firmato tra l’altro da Noam Chomsky e Margaret Atwood, ha dato nuova linfa alla discussione sulla cancel culture. Di questa pratica totalitaria e vagamente puritana, che invoca la “cancellazione” dell’immagine pubblica di chi abbia detto o fatto qualcosa di controverso, abbiamo parlato con Nadine Strossen, una delle voci più importanti del femminismo libertario americano. Professoressa emerita presso la New York School of Law, presidente fino al 2008 dell’American Civil Liberties Union, Strossen ha firmato l’appello di Harper’s e rivendica la sua scelta.
I difensori della cancel culture citano spesso l’invito di Popper a essere intolleranti con gli intolleranti, nel nome della tolleranza. Ma si potrebbe invece citare quanto disse Vittorio Foa al senatore missino Giorgio Pisanò: “Abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore. Se avessi vinto tu sarei ancora in carcere.”
Credo fermamente che tollerare le idee intolleranti – ma non le azioni intolleranti, come le pratiche abitative, scolastiche o occupazionali discriminatorie – sia una precondizione essenziale non solo per una forma di governo democratica, ma anche per agevolare qualsiasi movimento per il cambiamento sociale o politico. Per definizione qualsiasi persona, gruppo o movimento privo di potere politico dipende particolarmente dalla libertà di espressione, associazione e assemblea, e dal diritto di rivolgersi al Governo per la “riparazione di un torto” (garantiti dal I Emendamento della Costituzione americana) al fine di portare avanti i propri diritti. Certamente queste libertà possono essere usate per intraprendere battaglie antifasciste e anti-reazionarie, ma possono anche essere usate per fini opposti. Anche se fascisti, reazionari o altre forze non congeniali alle mie idee possono servirsi della libertà di espressione per promuovere le loro cause, sono convinta che il modo più efficace per contrapporsi a tali idee sia aumentare la libertà di espressione, non diminuirla: cioè affidarsi al counterspeech e ad altri approcci estranei alla censura.
Questo problema rimanda al rapporto tra mezzi e fini. All’idea maoista che tende a subordinare i mezzi ai fini, potremmo rispondere con il principio anarchico secondo cui i mezzi dovrebbero essere un modello per i fini.
Per principio, respingo l’idea che il fine giustifichi i mezzi – eccetto nella misura limitata in cui avviene sia nella legge costituzionale americana che nella legislazione internazionale sui diritti umani: che cioè il Governo possa restringere i diritti solo se ciò sia necessario e strettamente mirato a un fine compensativo di urgente necessità. Ecco perché il Governo può restringere la libertà di espressione nelle sole circostanze in cui la mancata restrizione produca un danno diretto e imminente. Non sorprende che il più famoso caso che illustra questo principio sia una congettura, perché si tratta di un criterio convenientemente difficile da soddisfare nel mondo reale: la famosa dichiarazione di O. W. Holmes secondo cui il Governo può impedire a qualcuno di gridare falsamente “Al fuoco!” all’interno di un teatro e causare panico. Al di là di queste circostanze estremamente limitate, respingo qualsiasi approccio più esteso per cui il fine possa giustificare i mezzi.
Il “trumpismo” e la cancel culture hanno molto in comune. Entrambi non concepiscono la contraddizione, il pensiero dialettico; hanno una forma mentis autoritaria e infantilizzante; credono nel pensiero di gruppo e in una visione antiumanista della società.
Sono d’accordo, e penso che la cancel culture di sinistra abbia creato o contribuito a creare una controreazione che ha alimentato il successo politico di Trump. La sinistra giustamente sottolinea che la destra dedica molte energie a censurare, quindi Trump e altri conservatori sono troppo spesso ipocriti quando non protestano per questo e intanto stigmatizzano ogni repressione della libertà di parola proveniente dai liberal, inclusa la cancel culture. Ahimè, tuttavia, c’è anche il rovescio della medaglia: troppi a sinistra sembrano avere due pesi e due misure, lamentandosi della cancel culture e di altre censure della destra ma non della loro parte. A onor di verità, c’è un importante fattore che complica le cose: con cancel culture di solito si intendono letteralmente degli esercizi della libertà di espressione protetti, ad esempio aspre critiche, inviti ad un’azione punitiva da parte di altri, boicottaggi, ecc. E certamente sono sostenitrice del counterspeech, cioè di levare la nostra voce contro le idee discriminatorie. Quindi occorre tracciare una linea tra critiche legittime, anche aspre, e bullismo, umiliazioni o “cancellazioni”, che invece hanno un impatto eccessivamente improntato alla soppressione del pensiero, alla punizione, all’intimidazione.
Viviamo nella cosiddetta “era della reputation”, in cui l’accountability delle singole persone diventa particolarmente importante. Se da un lato ciò potrebbe sembrare positivo, d’altro canto produce una crescente incapacità di separare la rispettabilità sociale di qualcuno dalla qualità del suo lavoro, sia che si tratti di arte, che di ricerca scientifica, che di altro.
Ciò è parte di una tendenza generale e problematica: condannare qualcuno, non importa quanto ampi e positivi siano i risultati che ha raggiunto o ciò che afferma, soltanto per un singolo “passo falso”, anche se in un lontano passato. Proprio nel momento in cui gli Stati Uniti stanno finalmente cominciando a porre rimedio alla orrenda natura iperpunitiva del nostro sistema legale attraverso la “giustizia riparativa”, troppi a sinistra si stanno spostando nella direzione opposta su questa particolare questione: se hai mai commesso una qualsiasi infrazione percepita dell’ortodossia corrente, ciò è sufficiente a macchiarti e a rendere il resto di ciò che hai fatto irrilevante. Con queste premesse dovremmo scartare praticamente chiunque. Questo approccio non solo produce una censura e auto-censura di massa, ma indebolisce la ricerca della verità in ogni materia, per la quale una robusta libertà di espressione, dibattito e dissenso sono cruciali. Gli scienziati sociali hanno documentato i “confirmation bias”, le nostre convinzioni delimitate che ostacolano ciascuno di noi nell’esprimere compiutamente i nostri pensieri, e che danneggiano anche l’analisi, e quindi anche approcci più efficaci in tutti i campi, dalla politica alla scienza. Quindi sia gli individui che la società in generale non traggono giovamento da questa modalità.
Lei è l’autrice di “Difesa della pornografia” (Castelvecchi, 2005), un importante saggio femminista contro la censura e la sessuofobia. Con l’ascesa della cancel culture, molti artisti cominciano ad aver paura di rappresentare la sessualità esplicita a meno che questa non sia accompagnata da un chiaro messaggio morale o sociale…
Il mio ultimo libro è completamente in linea con Difesa della pornografia: afferma essenzialmente che la censura fa più male che bene in particolare per la promozione dell’eguaglianza, la dignità, la diversità, la sicurezza – sia per le donne che per qualsiasi altro gruppo tradizionalmente marginalizzato e privato del potere. Visto che purtroppo l’icona dei diritti civili John Lewis è mancato da poco, mi permetta di citare una sua icastica citazione che è nel mio ultimo libro: “Senza libertà di espressione e diritto al dissenso, il movimento dei diritti civili sarebbe un uccello senza ali.” Sono particolarmente dispiaciuta per le spinte alla cancellazione, che inducono all’auto-censura, per ciò che attiene agli artisti, sia sui temi della sessualità che in qualsiasi altro ambito. Poiché l’espressione artistica riflette e ispira l’immaginazione individuale e la creatività, dovrebbe perlomeno essere libera da ogni genere di ortodossia proveniente dalle altre persone o dalla società. E certamente se un artista sceglie di legare la propria arte erotica ad un particolare messaggio politico, ben venga. Ma se sceglie di non farlo, ben venga comunque!