Patrizia Rutigliano, partiamo dall’inizio. Sei nata a Barletta, in Puglia. Sono curioso di sapere se pensi che queste radici abbiano influito sul tuo percorso. Se pensi che un sud, che a un certo punto della vita – per molti – diventa un po’ stretto, sia stato anche la spinta a sbirciare oltre i confini.
«Allora due cose: il fatto di essere nata e cresciuta in un luogo dove c’è una presenza così importante della natura, ha avuto su di me un grande impatto, anche nell’attenzione per l’ambiente. Sembra banale, ma solo un po’ di anni fa non era così scontato. Se nasci accanto al mare non puoi restarne indifferente. E poi, sì, quando eravamo piccoli, per quelli come noi che nascevano al sud, c’era un forte desiderio di realizzare esperienze di studio e professionali al nord. Sentivamo le storie di chi era più grande di noi e volevamo poterli imitare. Io, infatti, dopo il liceo mi sono trasferita a Milano per l’università. E adesso però accade la stessa cosa, rivivo la stessa situazione. Molti ragazzi che crescono al nord, tanti figli di amici, vogliono continuare ad andare oltre. E arrivano a Parigi, o arrivano a Londra. Insomma trovo sempre una tensione, molto positiva, verso un qualche luogo che dia l’opportunità di crescere e di confrontarsi con le diversità. Ovunque si nasca, per alcuni è così: pensi sempre che il posto dove sei rappresenta un confine, e vuoi semplicemente andare oltre».

Ma torniamo al lavoro. Manager, docente universitario (ruolo al quale tieni molto) e membro del Cda di Poste Italiane e Acea. Nel 2009 sei entrata in Snam, dove sei diventata Executive Vice President, prima donna a far parte del leadership team. Immagino tu abbia trovato sguardi pesanti o sorrisi sghembi a giudicare tutta questa strada. Cosa diresti a una giovane donna che, osservandoti, intende realizzare questo percorso?
«Guarda, devo dire che da sempre sono impegnata in progetti che promuovono la diversity. Un tempo la diversity era un minus, adesso fortunatamente è un plus, però a volte lo è soltanto a parole. Quindi il lavoro da fare – in generale – per tutte le diversità, e non soltanto per la diversità di genere, è ancora tanto. Io ho lavorato in settori Stem, principalmente infrastrutturali, e questi sono da sempre stati ad appannaggio prevalentemente maschile. Ho avuto la grande fortuna però di incontrare sempre capi azienda illuminati. Se pensi che in Snam la parità di genere è stata inserita addirittura nello statuto. Quello che ho imparato – con il passare del tempo – è che oltre alle competenze, che a un certo livello dobbiamo dare per scontate, o alla determinazione, che deve far parte di ogni processo evolutivo, essere sé stessi alla fine paga. Essere sé stessi significa riuscire a imporre, in modo semplice e senza approcci autoritari, la propria visione, per le diversità e le caratteristiche che “tu” porti come valore aggiunto. Perché alla fine ogni mestiere viene fatto sì dalle tue competenze, sì dalla tua determinazione, ma soprattutto da quello che “tu” sei. Questo crea un brand, che è solo il tuo, e cominciano a sceglierti perché sei tu, perché hai caratteristiche che altri non hanno. Penso che questo sia davvero un aspetto importante perché spesso, quando ci troviamo davanti a difficoltà di accettazione, la strada più semplice è rinunciare a se stessi, diventare qualcuno con caratteristiche più facili da gestire. La sfida più difficile invece è prima essere e poi rimanere se stessi, andando oltre la standardizzazione, differenziandosi oltre l’omologazione delle scelte. Servono coraggio e passione, per recuperare le proprie identità. Serve andare oltre l’ansia, la paura, il confronto e il timore di non essere adeguati. E certo è difficile, perché è molto più facile imparare qualcosa di nuovo che imparare chi siamo. Ma questo fa sempre la differenza».

Ti sei laureata in lingue e storia contemporanea, poi hai avuto un’esperienza da giornalista con un focus importante sull’economia e la finanza. Quanto è servita questa formazione tecnica nel tuo lavoro?
«Molto, ma io sono una che sostiene il continuous learning. Non ho mai smesso di studiare. Ho un Phd in social sciences e nel prossimo autunno comincio un master in corporate finance. Perché è vero che, come giornalista, mi sono focalizzata sui temi economici e finanziari, e nel mio percorso mi sono spesso occupata della parte relativa alla comunicazione finanziaria, però c’è bisogno di tanta competenza tecnica. Perché nei lavori che facciamo è necessario capire per potersi esprimere, per poter decidere e per poter consigliare. Quindi, sia con i tuoi collaboratori, o con i team diversi con i quali lavori, è necessario conoscere la materia per essere autorevoli, e quindi credibili».

Un’attenzione particolare per i temi sociali, dall’ambiente alla governance. Un filo rosso che parla di attenzione al prossimo e un forte senso di comunità. Qual è la radice personale che ha fatto sviluppare queste sensibilità?
«La mia famiglia ha una Fondazione dedicata a una persona cara. Quindi è un’attenzione che abbiamo un po’ tutti a casa, come formazione familiare. E se cresci, da quando sei piccola, in un ambiente con queste sensibilità, è normale che il tuo impegno sia teso all’inclusività. In più, il mio primo lavoro, dopo aver fatto la giornalista, è stato quello di Portavoce in Comune a Milano. Milano è una città molto attenta alla solidarietà. Aggiungici ancora che ho lavorato in aziende infrastrutturali ed eccoci qui. Questo ha significato avere una fortissima vicinanza alle comunità locali, un’attenzione alla parte sociale e a quella ambientale. L’ho approfondito negli anni a livello nazionale e internazionale. Anzi in altri paesi, soprattutto in quelli meno sviluppati, l’attenzione necessaria diventa esponenziale. Ante litteram, e prima di tante modifiche normative, le aziende dove ho lavorato hanno sempre avuto una particolare attenzione a questi temi. E poi questo diventa parte di te, del modello di business sui cui lavori, del tuo modo di operare e di essere presenti sul territorio. È un aspetto imprescindibile, ed è sano lavorare con una logica di reciproci ritorni».

Credi che le grandi trasformazioni che stiamo vivendo, dalla transizione digitale a quella ecologica, abbiano in sé l’opportunità di assottigliare le discriminazioni o c’è il rischio che le differenze possano aumentare?
«In America tanti anni fa si è sviluppato il concetto di transizione giusta. Che poi fondamentalmente significa che in ogni processo di transizione ci devono essere i giusti tempi e le giuste regole. Non è possibile fare altrimenti. Guardiamo a tutte le modifiche normative che sono in atto, sia per quel che riguarda i criteri ESG che l’intelligenza artificiale. Questi sono i due grandi mantra dei prossimi cinque anni e sono due aree che viaggiano assolutamente assieme. Tra l’altro sono certa che ci aiuteranno a raggiungere gli obiettivi al 2030. Però tutto questo deve avvenire facendo in modo che le imprese possano continuare a produrre, che i servizi erogati tengano conto delle esigenze di tutti, con particolare attenzione verso le persone. Ci sono nuovi livelli occupazionali, nuove tipologie di lavoro, che non possono prescindere dall’esigenza di ricollocare le risorse. Insomma, anche se è un concetto forse abusato, direi che è necessario agire con buon senso. Un giusto mix tra il tempo necessario e l’adozione delle regole. Credo che il corpus normativo che l’Unione europea ha varato negli ultimi anni possa ben accompagnarci in questo percorso. Ma molto dipenderà dagli impegni che saranno in grado di assumersi le aziende. Gli ultimi cinque anni, che ci separano dal 2030, avranno principalmente loro come protagoniste».

Prima di continuare però ho un dubbio. Frank Sinatra non sopportava più “Strangers in the night”. I Led Zeppelin trovavano troppo astratta “Stairway to Heaven” e John Lennon pensava che “Let it be” non rappresentasse i Beatles. È giusto che ad una donna di successo si continui a chiedere di pari opportunità? Ce n’è ancora bisogno?
«Bellissime queste citazioni musicali, te ne aggiungo un’altra. C’è una canzone di Amy Winehouse che fa: “le ragazze parlano tra di loro come fanno i ragazzi. Ma le ragazze hanno un occhio in più per i dettagli”. C’è una diversità, obiettiva. E il concetto di pari opportunità vale per tutte le diversità. Ma se vogliamo parlare di genere, ci sono ancora dei tetti di cristallo. Parliamo tanto di donne nei Cda, ci sono stati anche casi di cronaca recenti, ma in Italia abbiamo più presidenti donne che amministratori delegati donne. Stessa cosa in politica, stessa cosa nella pubblica amministrazione. Certo le cose stanno assolutamente cambiando e in meglio, questo è importante dirlo. Poi però, perché diventino la normalità, ancora ce ne vuole. Chiaramente non è questo l’unico punto di attenzione, ma torno a dire che la valorizzazione delle diversità, in generale, può essere la vera forza della nostra società allo stato attuale. Quindi lavorare per le pari opportunità, per tutti, e a tutte le condizioni, è ancora un lavoro da fare».

Si parla spesso di nuovi modelli di leadership da utilizzare. Per te com’è il leader giusto?
«Penso che ci siano leadership diverse a seconda dei tempi. Non c’è un modello che va bene per ogni epoca. Oggi sicuramente si va verso una leadership condivisa, molto più difficile da praticare. Perché significa essere un primus inter pares, significa riuscire ad avere la capacità di essere autorevole tra tanta gente di livello alto: per valori, competenze e specificità. La leadership che un tempo vedeva un modello più verticale, didattico, era una leadership più semplice. Invece oggi, riuscire ad essere riconosciuti come leader, per la propria gravitas – perché l’autorevolezza poggia sulla gravitas – e con questa struttura organizzativa orizzontale significa riuscire ad essere un leader vero, e soprattutto giusto. Che poi è il modo per attrarre persone molto qualificate, ed è anche il modo per elevare il livello della nostra società».

Hai ricoperto ruoli prestigiosi in associazioni di settore. Come pensi che stia evolvendo la professione di chi si occupa di Corporate Affairs e quali sono gli strumenti che bisogna acquisire?
«Allo stato attuale le professioni di staff non necessitano più di competenze “di staff” e basta. Un tempo c’era una grande differenza tra queste e “la linea”, ovvero la parte operativa. Invece il doversi occupare di una serie di progettualità, che per realizzarsi necessitano di modifiche normative, di contatti con il mondo associativo, di conoscenze di settore industriale, di tanta competenza tecnica, richiede sicuramente un più ampio sapere, compresa la necessità di “sporcarsi le mani” con l’operatività dell’azienda. Oggi è da questo che sono connotate alcune professioni come quelle, appunto, dei corporate affairs. Non ci si può più permettere di affidarsi al collega “tecnico”, in un mondo dove le decisioni o avvengono subito o avvengono dopo dieci anni. Saper entrare nel vivo e governare i dossier con padronanza è fondamentale».

Se dovessi chiederti chi sono stati i tuoi maestri, oltre quelli accademici intendo, a chi penseresti?
«Sicuramente Ferruccio De Bortoli, che era a capo di economia e finanza al Corriere quando studiavo giornalismo. Quando sono andata a lavorare al Comune poi, è stato molto bello, perché distingueva i suoi giornalisti del Corriere fra i nani della cronaca e i giganti dell’economia. Per quello che riguarda i public affairs devo dirti con sincerità, ma non vorrei che sembrasse una captatio benevolentiae perché non lo è: Velardi è uno di quelli che si è sporcato le mani nel mestiere, come dicevo prima, perché la sua professionalità nasce anche dalla sua importante esperienza di governo, e per questo resta tuttora un faro. Dal punto di vista accademico il mio professore in Cattolica era Gianfranco Bettetini, e mi è rimasto impresso il suo approccio interdisciplinare. Oggi a mio avviso questo aspetto è determinante perché non esistono più competenze chiuse, devi essere nelle condizioni, e nelle capacità, di poter avere una visione di contesto e guardare tutto. Per quello che riguarda il mondo green invece l’approccio divulgativo di Al Gore, nei confronti dei criteri Esg, ha fatto sì che questi temi incontrassero velocemente le sensibilità di tutti».

La Patrizia bambina immaginava così la Patrizia adulta?
«Io quando ero piccina volevo fare la giornalista o l’ambasciatrice. Credo di aver fatto un mix, mettendoci dentro incursioni varie, shakerate insieme. Da un punto di vista umano e personale non pensavo di essere così tosta. Ecco, pensavo di esserlo, ma mi sono scoperta più tosta di quello che immaginavo. E questa è una di quelle cose che, imparando a conoscermi, mi ha piacevolmente stupito».

Qual è la frase che in silenzio ti dici più spesso?
«Beh, la frase che mi accompagna da sempre, non so se è un motto o una citazione, è “never give up”. Perché ogni volta che voglio mollare, qualunque cosa accada, ogni volta che ho un cedimento, mi torna in testa, e me lo dico (ride al telefono, ndr)».

Michele Vitiello

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