Per la prima volta nella sua storia, ormai ultradecennale, il festival Burning Man è stato oggetto di una contestazione da parte degli attivisti ecologisti che si sono scontrati con la polizia, dopo aver bloccato le strade di accesso al festival che ogni anno si svolge alla fine di agosto nel deserto del Nevada. Ad aggravare la situazione, quasi fosse una maledizione, le incessanti piogge che hanno trasformato l’intera area in un malsano acquitrino, imprigionando le migliaia di partecipanti in un deserto di fango e di strade interrotte. Il quadro che ne emerge è tragico, e giunge anche la notizia della morte di un ragazzo, su cui le autorità del Nevada hanno aperto un fascicolo di indagine, per comprendere se si sia trattato di una fatalità o di una autentica omissione di soccorso.

Nato negli anni ottanta a San Francisco, quasi per goliardia, il festival raggiunse dei livelli tali di partecipazione da aver costretto la polizia a disperdere la folla radunata sulle spiagge della città californiana. Così, i fondatori e il collettivo Cacophony Society, un gruppo di guastatori culturali dadaisti specializzati in scherzi assai pesanti e in installazioni biomeccaniche, si sono trasferiti nel deserto del Nevada. Qui ogni anno viene “fondata” la città ricombinante di Black Rock City, capitale culturale del Festival e della Silicon Valley. Il festival è una sorta di manifestazione tecnopagana dalle atmosfere alla Mad Max che unisce spettacoli tecnici e meccanici con macchine gigantesche che si scontrano tra loro, lingue di fiamma, migliaia di droni luminosi che compongono sciami volanti nel cielo, fakirismo, BDSM.

Questa commistione tra spirito tribale ed elementi hi-tech ha trasformato il Burning Man – il cui nome deriva dall’usanza di ardere un enorme uomo fatto di fascine di legno, assecondando un antico rituale di prosperità che al cinema venne meravigliosamente affrescato nel conturbante film The Wicker Man – in ciò che è stata definita la “infrastruttura culturale” della Silicon Valley. Una infrastruttura che ha anche celebrato i propri sacrifici umani, come quello di Aaron Joel Mitchell, un quarantunenne che nella edizione del 2017 si gettò tra le fascine in fiamme ardendo nel rogo.

Al Festival, infatti, partecipano attivamente i vertici delle più importanti società della Silicon Valley. Qui per anni si sono riuniti Bezos, i dirigenti di Google, Zuckerberg, Musk – che a quanto pare metterà a disposizione per la edizione 2025 la tecnologia di SpaceX – avvocati operanti nel campo del digitale, specialisti dei social media, sviluppatori, start-upper. Il primo Doodle di Google fu proprio il simbolo Burning Man. E nei primi anni di attività il motore di ricerca selezionava i propri dirigenti avendo cura che avessero partecipato al Festival. L’evento avrebbe rappresentato, secondo David Vise e Mark Malseed, nel loro ‘Google Story’, il vero punto di svolta per il motore di ricerca, trasformandolo in una impresa-mondo.

La Microsoft ha in seguito addirittura effettuato una ricerca per “mappare il genoma culturale del Burning Man”. Lo scontro con gli attivisti climatici origina dallo scorso anno. Ed è piuttosto curioso perché il Burning Man, governato da una sua peculiare e capillare burocrazia, si basa sul principio del riutilizzo ed è da sempre attento proprio all’ecologismo. Nulla deve essere lasciato nel deserto, né una lattina né una cartaccia. La stessa Black Rock City viene completamente smontata e fatta scomparire. Il Festival ha propiziato alcune delle idee di base della economia nell’epoca delle piattaforme digitali, dal baratto al ritorno della centralità del dono – secondo coordinate antropologiche alla Mauss, di riaffermazione, cioè, di una asimmetria nei rapporti di potere – e della pretesa e presunta gratuità che punteggia l’economia digitale.
L’idea di fondo del festival, una idea tipicamente digitale, è che nessuno può essere solo un mero spettatore. Ognuno deve fare la propria parte e partecipare in qualche modo, rendendosi parte della ‘intelligenza collettiva’.