Ci risiamo. È un automatismo, o quasi: dove si vota, con tempismo perfetto, arrivano le Procure. E quando colpiscono i candidati del Pd, immediatamente il Nazareno li disconosce e cambia strada. Soprattutto adesso che il M5S è pronto a soffiare sul fuoco delle inchieste. Ormai è una prassi consolidata. I casi di Bari e del Piemonte, gli ultimi due in termini temporali, fotografano i Dem ancora una volta nell’atto del suicidio. Giuseppe Conte sfida il Nazareno e Elly Schlein ancora una volta – al netto di qualche scaramuccia dialettica – finisce per assecondarlo. Promettendo pulizia profonda, il bando per gli “impresentabili”, il contrasto a “cacicchi e capibastone”. Con riflesso pavloviano, il Nazareno ritira i suoi in buon ordine, pronto a imporre – ci sta lavorando il senatore Antonio Misiani – un nuovo regolamento interno nel nome della “questione morale”.

Abbiamo sentito alcune delle vittime sacrificali del Pd, dirigenti, sindaci, governatori e parlamentari i cui profili in questi ultimi anni sono stati offerti sull’altare della condanna mediatico-giudiziaria. Sacrificati da innocenti: assolti, sono per lo più usciti dalla vita politica, portando via esperienza, competenza e consenso al Pd. Che però non impara la lazione. L’ex governatrice dell’Umbria, Catiuscia Marini, ne sa qualcosa. «Nella mia regione è accaduto esattamente questo, il suicidio del Pd». Era governatrice in carica quando, inserita in un fascicolo d’inchiesta per abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio e falso, venne fatta dimettere in fretta e furia dall’allora segretario Nicola Zingaretti. Oggi la stessa pubblica accusa ne chiede l’assoluzione da tutti i capi d’accusa, mentre la Regione Umbria è passata sotto le insegne del centrodestra. «La mia esperienza dice che non c’è parità di trattamento tra le persone», dichiara Marini al Riformista. «Di volta in volta, sulla base di una campagna giudiziaria e mediatica, che si sovrappongono, si decide di tutelare o affossare esponenti politici o candidati. Chi ci rimette di più in tutto questo? Gli amministratori locali, che sono in prima linea e sono chiamati ogni giorno a firmare centinaia di atti».

D’altronde quali sono gli strumenti con i quali il partito dovrebbe filtrare i dirigenti con il bollino, la patente di indubbia moralità? «Abbiamo la legge Severino che nei confronti degli Amministratori pubblici è una deroga rispetto a quello che accade a un normale cittadino. Ci sarebbe la presunzione di innocenza come da direttive europee, c’è la Costituzione italiana, e poi interviene la Severino. Che mette dei paletti, lo voglio sottolineare: se io vengo anche solo sottoposto a un provvedimento per determinate tipologie di reato, sussiste una cautela preventiva delle istituzioni pubbliche. Ma non esiste che i soggetti politici, al di là della Costituzione e della legge Severino, possano sostituirsi con una valutazione che entra nel merito di vicende giudiziarie», prosegue nel ragionamento Marini. «Chi si arroga il potere di decidere, con criteri aleatori e personalistici, chi promuovere e chi fermare?», si chiede.

Mario Oliverio è stato presidente della Regione Calabria fino al 2020. Ha subìto una lunga serie di attacchi giudiziari, tutti superati con assoluzioni piene. «È un grave errore seguire Conte su un versante che non ha assolutamente nulla di politico ma che è solo alimentato da pulsioni populiste e giustizialiste». È la politica, appunto, a farne le spese. «La sinistra deve recuperare un sistema di valori, un orizzonte a cui ancorare la propria azione politica. E liberarsi dalla zavorra manettara dell’inseguimento dei populisti”, l’appello dell’ex governatore calabrese. Inseguire su questo terreno le pulsioni populiste, porta ad una impostazione nichilista. Porta ad annegare i valori di un progetto riformista. Era ed è un’illusione pensare di assorbire le spinte populiste assecondandone le pulsioni è un’illusione pensare che alleandosi. Quindi è necessario riflettere su questo: altroché agitare il tema dei cacicchi». Che poi è il semplice dileggiativo dei dirigenti locali, magari di quelli che i voti li portano al partito, tanto per dire. «Io sono fuori dalla politica da quattro anni proprio in conseguenza di una vicenda giudiziaria che mi ha visto assolto con formula piena: la Cassazione ha detto che non esistevano i presupposti per le richieste fatte dai Pm. E nessuno nel mio partito, il Pd, ha sentito il bisogno di farmi una telefonata».

Luca Lotti era stato deputato due volte, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Matteo Renzi e ministro per lo Sport nel governo Gentiloni. In seguito al suo coinvolgimento nello scandalo all’interno del CSM riguardante l’inchiesta Palamara, per l’ormai celebre cena all’hotel Champagne, il Pd ha deciso di non ricandidarlo neppure in Parlamento. Assolto da tutte le accuse, sintetizza per il Riformista: «Mi ritrovo pienamente in quel che dice Veltroni che non è né l’ultimo arrivato, né uno sprovveduto in casa PD: il codice etico c’è già e non servono inquisizioni interne». Anche il suo caso è un misto tra furia giacobina e vendetta interna. Due elementi che spesso vanno insieme. “Quando qualcuno ha attaccato me usando prove false, ha attaccato il mio partito. Mi piacerebbe che il Pd avesse fatto gioco di squadra facendo quadrato intorno alle sue persone che ingiustamente subiscono vicende come la mia». Perché poi c’è, appunto, il tema dei veleni interni. Si torna a pensare all’hotel Champagne. «In quel momento mi hanno attaccato anche Speranza, Cuperlo, Orlando. E non vorrei che qualcuno tra loro avesse voluto cavalcare le accuse giudiziarie per liberarsi di un renziano», lo sfogo di Lotti.

Stefano Esposito, deputato Pd nella XVI legislatura e senatore nella XVII legislatura, ha avuto un lungo strascico giudiziario dal quale è stato completamente scagionato. «Questo partito si suicida ogni volta sacrificando i suoi: è del tutto evidente che ormai Schlein è vittima di una sindrome di Stoccolma nei confronti di Conte». La sua analisi è impietosa: «Non vedono alternative all’alleanza con i Cinque Stelle e quindi fanno strame della cultura garantista, che ormai nel Pd è morta. Ormai le liste degli eletti vengono fatte dalle Procure, se basta un avviso di garanzia a mettere fuori gara questo o quel candidato». E anche la presunzione di innocenza va a farsi benedire se «Prevale la regola del casellario giudiziario, per cui un fascicolo aperto pregiudica una carriera politica. Per il Pd la Costituzione italiana è la più bella del mondo ma non nella parte che parla di giustizia”, taglia corto Esposito. Colpa, a suo dire, «di una mancanza di cultura riformista, della perdita di valori culturali. L’ipocrisia del populismo giudiziario ucciderà il Pd».

Stessa posizione, quella di Simone Uggetti. L’ex sindaco di Lodi, eletto primo cittadino nel 2013 con una coalizione di centro-sinistra, rassegnò le dimissioni tre anni più tardi a causa del suo coinvolgimento in una vicenda giudiziaria, dalla quale uscì poi definitivamente assolto nel 2023 dopo il secondo processo d’appello. Dal Nazareno non gli è arrivata una sola telefonata di rallegramenti, dopo l’assoluzione. «È come se la storia degli ultimi 30 anni non ci avesse insegnato nulla», ci dice. «I codici etici devono essere valoriali e politici, non dettati dalle Procure, altrimenti si deroga alla missione democratica a cui ci delegano gli elettori», il succo del suo pensiero. «E più in generale, trovo offensivo rivolgersi ai dirigenti locali come a cacicchi e capibastone. Che cos’è che non vogliamo? Il rapporto consolidato con il territorio, i voti di chi ha maggior consenso? Le trovo tesi bizzarre, per chi fa politica. Quelle di Schlein a Conte sono subalternità che mostrano una debolezza che sta tra l’ingenuo e il puerile».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.