Le cose con la Cina vanno malissimo e l’unico conforto che abbiamo è sapere che tutte e due le parti – Pechino e Washington – non vogliono la guerra ma sanno anche che è sempre più difficile calcolare il modo di evitarla. Sono successe tre cose, anzi quattro. La quarta – ormai dimenticata – è che nel bel mezzo del Covid i cinesi si sono impossessati di Hong Kong e l’hanno ridotta al silenzio. Ricordate quelle decine di migliaia di giovani che per mesi protestavano con gli ombrelli scontrandosi con gli idranti della polizia? Sparita. Rapita di notte e portata nei gulag, ragazzini quindicenni di lingua inglese e di educazione occidentale deportati nei campi di rieducazione. Che ha detto l’Occidente? Niente. Lo potevano fare i cinesi? No: esisteva ed esiste un trattato perfettamente valido garantito dalle Nazioni Unite del 1984 che garantiva ad Hong Kong altri cinquant’anni di autonomia. Unica reazione, Usa e Uk hanno tolto ad Hong Kong alcuni privilegi commerciali e doganali, considerandola ormai territorio continentale cinese. Ma adesso sono accadute due cose nuove: Trump ha apertamente accusato alle Nazioni Unite la Cina di essere totalmente responsabile per il Covid.
Senza accusare i cinesi di averlo fabbricato appositamente come molti scienziati ritengono, ma di averlo comunque diffuso e nascosto in modo subdolo e vigliacco, preoccupandosi soltanto di mettere a tacere lo scandalo, imponendo così a tutto il mondo un tragico ritardo nel mettere in campo le contromisure. Per questo, dice Trump, gli Stati Uniti d’America hanno perso più di duecentomila vite umane, vale a dire più di quante ne abbiano perse in tutte le loro guerre. Una catastrofe di cui la Cina è colpevole. A questa accusa Xi, che se lo aspettava, ha risposto impassibile negando e replicando che adesso si deve soltanto lottare insieme per vincere il Covid. Troppo comodo, ha risposto l’amministrazione americana: avete una colpa grave che va oltre l’errore, e pagherete per questo. I cinesi hanno messo in mare in fretta e furia negli ultimi due mesi una flotta che equivale a quella americana per numeri ma non per tecnologia. Nel mare del Sud cinese sono attive da mesi la flotta americana, quella australiana, parte di quella indiana e persino la flottiglia vietnamita (il Vietnam è alleato degli Usa) fatta di navi concesse dai giapponesi. I Paesi orientali sono furiosi con la Cina: la Corea del Sud si è portata via la Samsung e tutti minacciano di disertare la Cina. Poi c’è la questione di Taiwan, che è la più drammatica e complicata e dalla quale potrebbe partire il colpo sbagliato da usare casus belli.
Ma prima di Taiwan bisogna guardare a quel che è successo in Vaticano: Mike Pompeo, che ha la stazza di un buon uomo gaudente, è uno che va per le spicce. È andato dal papa argentino con cui Trump ha già litigato sulla questione dei confini col Messico e gli ha chiesto se davvero intende concedere al Partito comunista cinese la scelta dei vescovi cattolici in Cina. La cosa va avanti da un pezzo. In televisione abbiamo sentito spesso le sconsolate interviste ai vescovi e ai vecchi prelati cinesi di Hong Kong i quali dicevano di essere stati abbandonati dal Papa il quale ha sottoscritto il patto da decenni desiderato da Pechino, secondo cui le nomine dei vescovi cattolici saranno quelle decise dal partito e dal governo cinese, sulla base di liste locali. In pratica, la chiesa cattolica in Cina starebbe diventando una chiesa “autorizzata” dal partito o, come anche si dice, una “chiesa cattolica patriottica”, cioè in linea col governo. Questa situazione, che in Italia è passata interamente sotto silenzio, ha provocato emozione e scalpore sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti e in Australia, perché la “Chiesa del silenzio” in nome della quale centinaia di preti e vescovi sono morti in prigione o giustiziati sarebbe stata rinnegata da Bergoglio che, da gesuita pratico, avrebbe scelto la linea dell’allineamento col governo per chiudere la questione spinosa, specialmente dopo la fine delle due isole indipendenti di Hong Kong e Taiwan.
In questi giorni e in queste ore aerei della Cina continentale violano lo spazio aereo di Taiwan con bombardieri e caccia. Non esiste una linea legale di confine poiché politicamente Taiwan fa parte della Cina continentale, ma godendo di una storica autonomia. La linea mediana dello stretto è stata sempre rispettata fino al 2019 come se fosse una zona di confine e adesso la Cina continentale la viola in maniera provocatoria sorvolando il mare di Taiwan e avventurandosi anche sulla terraferma. Come sempre Taiwan fa levare in volo i suoi aerei e in cielo si svolgono duelli elettronici in cui gli aerei assumono una posizione di lancio per poi modificarla, mettendo in allarme i computer avversari. Molti analisti sostengono che Pechino sia a caccia dell’incidente e che cerchi a tutti i costi di far commettere l’errore a un aereo di Taiwan di sparare il primo colpo. Ogni mattina i piloti di Taiwan subiscono un vero lavaggio del cervello sulle regole d’ingaggio perché hanno il divieto assoluto di far fuoco anche nel caso che fossero colpiti, a meno che non venga dato loro l’ordine di usare le armi. Gli Stati Uniti quando fecero pace col presidente Richard Nixon con la Cina di Mao (in funzione antisovietica) accettarono di togliere ogni rappresentanza diplomatica a Taiwan riconoscendo che tale isola appartiene alla Cina.
Ma proprio un mese fa il Dipartimento di Stato ha reso pubblici i documenti di quell’accordo, che risale al 1981, nel quale non vengono meno tutti gli impegni di sostegno ad oltranza e difesa militare americana nei confronti di Taiwan nel caso fosse attaccata. Quindi Taiwan è diventata da allora un oggetto sempre più misterioso: abitata da una varietà di cinesi diversi dai continentali, nel 1949 ricevette quel che restava dell’esercito nazionalista di Chang Kai-Shek che, dopo aver combattuto i giapponesi insieme a Mao, era stato sconfitto dai comunisti e si era rifugiato a Taiwan dove dichiarava di essere l’unico presidente legittimo dell’intera Cina. Instaurò una feroce dittatura militare che dopo la sua morte si trasformò in una democrazia di tipo occidentale in una grande isola molto ricca e produttiva, quando la Cina continentale era alla miseria. Due mesi fa Trump mandò un suo viceministro della Sanità per studiare comer il governo di Taiwan aveva combattuto (con straordinario successo, fra l’altro) il Covid e in questo modo ha spezzato l’incantesimo che non permetteva di vedere l’esistenza ancora di due Cine, di cui una gratificata da una visita di Stato.
I cinesi erano furiosi e hanno fatto decollare centinaia di caccia invadendo l’isola con frastuoni acuitissimi e facendo scattare tutti gli allarmi. Gli americani hanno quindi ripreso gli sbarchi di massa di ben quattro sistemi operativi militari ad altissima tecnologia di difesa aerea, terrestre e navale, rinnovando tutto il comparto elettronico taiwanese. Poco più in là, si svolgono esercitazioni quotidiane delle opposte flotte americane e cinesi, con continuo lancio di missili da esercitazione che impegnano i computer e costringono ad un continuo turnover dei rifornimenti di missili. I cinesi cercano di costringere i calcolatori di bordo americani a confessare quante armi hanno in magazzino per poterle saturare. A questo punto è intervenuta anche la flotta giapponese del dimissionario Abe, deciso a chiudere l’epoca in cui il Giappone – come la Germania – non era più autorizzato a disporre di flotta ed esercito, sicché oltre a un numero ancora mai registrato di navi da battaglia di un tratto d’acqua internazionale, procedono sul mar cinese del Sud una quantità gigantesca di mezzi anfibi che sono qualcosa a metà fra un sottomarino con cingoli e un carrarmato subacqueo, capaci di lanci di missili a medio raggio.
La guerra in corso è per ora una guerra di calcolatori: nessuno vuole esporsi al rischio di far partire una salva di missili reali – oltre le migliaia che ogni giorno partono per esercitazione – senza avere controllo completo sui magazzini e i rifornimenti dell’avversario. In questo campo gli americani hanno una potenza di turnover e di rifornimento che nessun altro si può permettere. La Cina ha costretto i suoi cantieri navali a varare decine di navi da guerra capaci di reggere almeno numericamente la pressione americana ma le nuove navi cinesi non hanno porti sufficienti per stare in rada, rifornirsi, essere riparate, perché tutti i porti dei Paesi limitrofi sono chiusi, visto che anche il Brunei ha messo in mare la sua piccola flotta al fianco di quella americana, mentre Singapore trema perché vede una possibile guerra come la fine del suo periodo d’oro di città Stato e cerca di fare da ponte fra le parti in causa. L’arrivo degli australiani – che si considerano i veri conoscitori della politica cinese e che hanno accusato gli americani di dilettantismo – ha spostato l’ago della bussola in senso occidentale, mentre Pechino spera che la Russia di Putin possa mettersi al suo fianco.
Ma la Russia ha altre gatte da pelare e gli americani ne hanno aggiunto altre avendo il fiato sul collo sulla Bielorussia colpita anche dalle sanzioni europee e rafforzando il meccanismo militare lasciato da Obama in Polonia che è un gioiello di tecnologia e protegge anche i Paesi baltici, specialmente la Lituania. La Russia convoca conferenze con gli indiani e gli iraniani, e cerca di assumere il ruolo di paciere fra India e Cina sulla frontiera delle montagne ma non sembra avere alcuna voglia di mettersi in mezzo al traffico navale fra il mare del Sud della Cina e lo stretto di Taiwan. Nelle poche settimane che ci separano dal 4 novembre, giorno delle elezioni americane, la situazione con la Cina potrebbe precipitare in uno show-down o restare sullo sfondo come una minaccia latente. In campo repubblicano sostengono che Trump, se rieletto, eserciterebbe sulla Cina una pressione sufficiente a far perdere la faccia al presidente Xi per costringerlo a dimettersi e facilitare la presa di potere dell’ala insoddisfatta della piega imperiale dell’attuale segretario e più incline agli affari che allo scontro con l’America.