Pechino torna a ringhiare. Lo fa con l’arma della propaganda e della spettacolarizzazione della sua forza militare mentre il mondo è concentrato sul fronte mediorientale, con il rischio escalation alle porte e gli Stati Uniti impegnati nell’ultimo tratto di una difficile e imprevedibile campagna elettorale. Un video propagandistico del Dragone annuncia l’imminente esercitazione intorno a Taiwan, e per la prima volta insieme a cacciatorpedinieri, bombardieri, mezzi da sbarco ha messo in campo anche una portaerei.

L’operazione attorno a Formosa

Le autorità di Pechino hanno riferito di aver completato l’operazione e testato la capacità delle loro forze intorno all’ex isola di Formosa. Taipei si è detta pronta a reagire, mentre il Ministro della Difesa riferisce che le isole periferiche Matsu e le Kinmen, le più vicine alla costa cinese, sono in massimo stato di allerta. La Casa Bianca si è detta “preoccupata” e ha giudicato la scelta di Pechino di rispondere con le manovre al discorso del presidente Lai come “ingiustificate”, non esenti dal rischio di “degenerare”. La Cina ha voluto testare la propria capacità di effettuare il blocco intorno a Taiwan, e mandare un messaggio chiaro alla leadership della repubblica di Tapei.

La politica estera

Washington teme l’apertura di un nuovo fronte e soprattutto che la Cina possa rompere gli indugi mentre tutte le energie sono concentrate su Ucraina e Israele. Quello del fattore “priorità” da riservare al Pacifico è un vecchio mantra dell’intellighenzia repubblicana che nella Cina ravvisa il vero nemico cui contrapporsi, un nemico subdolo e molto più pericoloso della Russia. Per i repubblicani il grande errore dei democratici è quello di essersi impantanati in Ucraina, una verità condivisa da tanti analisti vicini al partito dell’elefante. Per i repubblicani infatti la priorità è Pechino, la minaccia viene dalle mire espansionistiche del dragone, e non perdonano ai democratici di aver sottovalutato il pericolo e soprattutto di aver gettato la Russia nelle braccia dei cinesi, invece di attuare all’inverso la dottrina Kissinger. Non che questo possa influenzare molto la campagna elettorale, che fino ad oggi si caratterizza per un ruolo estremamente minimale della politica estera. Ma ci dice tanto su quello che pensano e dunque vorrebbero fare i mondi che ruotano intorno a Donald Trump e Kamala Harris.

Per gli analisti vicini a Trump e alla galassia repubblicana lo scontro con la Cina è inevitabile ma ancora condizionato dalla disparità di forze e dal rischio di innescare un conflitto che finirebbe inevitabilmente per coinvolgere tutti gli attori dell’area, Giappone su tutti. L’impero del Sol levante non ha nessuna intenzione di farsi trovare impreparato, memore dell’imprevedibilità che Pechino ha nel proprio dna. Del resto il nuovo saggio di Zheng Yongnian lascia pochi dubbi all’interpretazione. Secondo il politologo cinese vicino al Presidente Xi Jinping il conflitto è la conseguenza della nuova “guerra fredda”, quella che ha visto la vecchia Urss sostituita dalla Repubblica popolare come nemico dell’Occidente. La propaganda di Pechino sembra andare nella direzione di preparare una narrazione che imputi all’America e all’Occidente l’eventuale scoppio del conflitto.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.